Dove eravate nel gennaio 2016 quando i sauditi bombardavano l’ospedale materno infantile al Sabaeen di Sana’a in Yemen, esattamente la sezione neonatale piena di incubatrici? Dove eravate nel novembre 2016 quando un bombardamento russo sull’ospedale al Quds di Aleppo uccise 27 persone, tra medici e pazienti, e il pediatra Waseem Maaz cercava di salvare i neonati estraendoli dalle incubatrici e portandoli nel bunker tra le lacrime? E se non volete guardare fuori dall’Europa, dove eravate nel 20 luglio del 1993 dove 200 bambini vennero abbandonati in nell’ospedale bosniaco assediato di Drin a Fojnica, in Croazia, dalle truppe croate, mentre il contingente UN a controllo canadese perdeva del tempo prezioso per salvare loro la vita, dove? Potrei continuare quasi all’infinito, ma mi fermo.
A chi lo chiedo? Lo chiedo per primi ai funzionari delle Nazioni Unite. Ad Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite e a tutti coloro che, giustamente, dopo il bombardamento dell’ospedale materno infantile di Mariùpol, in Ucraina, hanno alzato la voce subito, senza tentennamenti, e si sono appellati alla Convenzione di Ginevra per aggiungere la Russia all’elenco degli attori politici e militari macchiatisi di crimini di guerra. Bombardare un ospedale è un crimine di guerra. Bombardare un ospedale materno-infantile lo è ancora di più perché equivale a colpire un obiettivo civile nel suo simbolico e concreto futuro. Dunque, di fronte alla riprovazione internazionale sulla vicenda di Mariupol mi vien da dire: bene. Ma, anche, finalmente. Perché in tutti i casi che ho elencato, non solo le UN e i suoi rappresentanti non si sono sentiti in dovere di agire subito, ma non si sono sentiti in dovere nemmeno di agire, a parte qualche dichiarazione di prammatica. In alcuni casi, dopo anni, come nel caso dello Yemen, hanno addirittura negato le evidenze, nero su bianco, dopo avere scomodato task force di esperti con prove schiaccianti sui tavoli. Perché dovremmo cedere all’idea che le lobby nazionali sono più forti della Convenzione di Ginevra e duecento bambini morti in un colpo solo a causa di un bombardamento saudita non sono sufficienti per farla rispettare? È la geopolitica, bellezza. “Non ci puoi fare niente”: mi dissero a New York, nella sede delle Nazioni Unite, nell’aprile del 2017, quando dopo tre mesi trascorsi in Yemen nel 2016 andando da un ospedale all’altro, raccolsi la prima base di queste prove per poi, dopo cinque anni, avere un pugno di mosche in mano. Ecco dov’ero, se lo voleste chiedere a me.
Dove eravate anche voi, media italiani? Per anni ci avete raccontato che il giornalismo di esteri non interessava ai cittadini, che non era importante per il Paese, che non alzava lo share, che costringeva la casalinga di Voghera a saltare a piè pari le pagine dei giornali a meno che non si scrivesse di Lady Diana. Ci avete detto che non avevate il becco di un quattrino per comprare servizi o foto-reportage dall’estero da fornitori esterni né di inviare i giornalisti di staff a testimoniare la Storia. Adesso, in preda a un’isteria collettiva, avete steso una mano di pece guerresca su ogni palinsesto e programmazione e non sapete dove andare a parare alla ricerca di esperti e di inviati fai da te. Il risultato è lungi dal ritenersi di qualità: siamo circondati, fatte le dovute eccezioni, da narrazioni narcisistiche, faccione da selfie, racconti schiacciati sulla contingenza della diretta h24, sulla descrizione del primo ed ennesimo povero profugo che passa, senza contesto e senza prospettiva storica e geopolitica. Un giornalismo di pancia che, alla lunga, non potrà soddisfare la testa di un pubblico pensante, per quanto venga ritenuto dai direttori di rete un otre da riempire di istinti estremi per aizzare l’arena politica.
Per ultimi lo chiedo a voi, dove eravate. A voi, a noi, adesso svegli da un sonno troppo lungo che ci ha rigenerato mostri, incapaci di sentire chi è appena più lontano, appena più a Sud o a Est di noi, appena più scuro di noi, appena meno ricco o istruito (ma ne siamo proprio sicuri?) di noi. Dopo i primi giorni di empatizzazione con la popolazione ucraina, leggo distinguo motivati da ragioni di vicinanza. “Quel che è più vicino a noi ci tocca di più”. E ancora: “Come non si può non essere solidali nei confronti delle famiglie ucraine le cui donne vivono nel nostro tinello e rimboccano i nostri anziani?” No certo: non si può. Anzi, si deve essere solidali. E non solo solidali: bisogna aiutare, accogliere. Anche qui dico: bene, giusto. Ma dico anche: non benissimo, quando i distinguo vengono fatti per difetto. “Come non essere più solidali, più indignati, più empatici con chi ci sta più vicino?”, molti dicono. E’ quel più davanti alla solidarietà, all’indignazione, all’empatia che mi sconvolge. E’ quel non avere vergogna di mettere in atto quel più, di dargli un valore assoluto perché – cito testualmente da un tweet di Riccardo Chiaberge – “gli ucraini hanno più o meno le nostre abitudini di vita, la tv, il frigorifero, l’auto, il fast food, quindi facciamo meno fatica ad immedesimarci. Chi di voi riesce a immedesimarsi in un bambino yemenita?” Al netto dei pregiudizi alimentati da ignoranza (in Yemen ci sono decine di fast food, tutti hanno l’auto, tv ed elettrodomestici nelle case ci sono dagli anni Settanta) possiamo arrivare a sdoganare così tanto la disumanizzazione del “diverso”, senza vergognarcene almeno un po’? Possiamo ridurre la base della comunicazione empatica all’avere, al possedere? Dunque, sono più simile a un altro essere umano in base a quello che ho o a quello che – io e lui – siamo? Forse che io e il bambino yemenita non abbiamo entrambi una bocca per mangiare, una pancia per digerire ma anche una testa per pensare e un cuore per amare? Non possiamo disumanizzare il diverso, se vogliamo restare umani. Perché il diverso, visto da sotto il tropico del Cancro, prima o poi, come adesso, siamo noi.
Forse, dopo il bombardamento russo sull’ospedale di Mariupol dovremmo utilizzare la nostra sensibilità rinvigorita non per riguardarci l’ombelico ma per aprire una voragine che da questo ombelico arrivi alle arterie e le faccia finalmente pulsare. Perché il mondo ci guarda, ci giudica e, in questo mondo di umani sulla stessa barca in tempesta, prima o poi qualcuno ci chiederà il conto di tutte quelle volte che ci siamo girati dall’altra parte. Ah, un’ultima nota: questa non è una polemica, per chi non l’avesse capito. E’ un grido represso da troppi giorni e che non posso più trattenere. Anche San Giovanni gridava nel deserto e gli dicevano che era pazzo.