Nell’eterna, inossidabile commedia dell’arte nella quale si è trasformata la politica italiana dopo la fine ingloriosa della Prima Repubblica (oggi mai abbastanza rimpianta), tocca assistere all’ennesima indigeribile sceneggiata messa in scena questa volta dalla destra di governo della regione Liguria, disarcionata dall’inchiesta che ha portato il presidente Giovanni Toti agli arresti domiciliari con una doppia accusa (corruzione e finanziamento illecito) e dopo 80 giorni di detenzione domestica alle dimissioni dalla carica che Toti aveva difeso cocciutamente rifiutandosi di trarre le inevitabili conseguenze politiche dalla vicenda giudiziaria nella quale si era ritrovato immerso fino al collo.
La lettera di dimissioni, recapitata attraverso uno dei suoi fedelissimi, l’assessore Giampedrone, al presidente facente funzioni Piana certifica finalmente e con inescusabile ritardo l’impossibile pretesa di Toti di continuare a guidare la macchina regionale dalla villetta di Ameglia come se nulla fosse accaduto nei quasi tre mesi dal 7 maggio ad oggi. E di fatto manda all’aria l’alleanza politica che lo aveva sostenuto, nonché la sua personale lista elettorale (Cambiamo con Toti) che difatti si è provveduto a ripulire d’urgenza dal nome dell’ex governatore.
La pretesa, esplicitata da Toti, di aver lasciato la Liguria “in ordine” fa a pugni con la realtà dei fatti. La regione più anziana d’Italia annaspa, i giovani non hanno affatto smesso di emigrare, impoverendo la qualità del lavoro locale. Le infrastrutture scricchiolano, ribadendo l’isolamento territoriale della regione che gli infiniti lavori autostradali condannano ad un isolamento senza fine. A ponente mancano ancora quasi 30 chilometri di doppio binario tra Finale e Andora e il collo di bottiglia penalizza i viaggiatori e le merci. La sanità crivellata dalle privatizzazioni realizzate da Toti a spese del servizio sanitario nazionale ha accumulato almeno 200 milioni di rosso. A crescere e nessuno sa o dice come verrà colmato il buco salvo aumentare le tasse ai cittadini. Sulla regione stanno piovendo la bellezza di 13 miliardi dal PNRR (7 per la sola città di Genova) e però le opere pubbliche si affastellano senza criterio. Funivie inutili, skymetro impraticabili e bocciati ripetutamente dal ministero del LLPP, ospedali scassati e a corto di personale medico e infermieristico vengono lasciati a sé stessi mentre si progettano strutture costosissime e irrealizzabili e l’entroterra resta sempre più sguarnito di presidi medicio-sanitari. Una politica che, va detto, venne inaugurata dalla giunta di centrosinistra, presieduta da Claudio Burlando, che ha trovato in Toti l’epigono perfetto.
Da Roma, appresa la decisione che neppure segretamente aveva ultimamente perorato la Lega ha comicamente tirato in ballo la magistratura indicata come lo strumento che ha ribaltato la volontà popolare. Nessuna sorpresa, il plebiscitarismo autoritario della Lega e dei suoi alleati, seppur declinato con toni escopi differenti, è perfettamente illustrato dalle tante iniziative legislative parlamentari assunte in questi mesi: dalla cosiddetta riforma costituzionale (che disarticolerebbe la Carta del 1948 consegnando l’Italia ad un regime autocratico), passando attraverso le leggi-bavaglio e ammazza giudici licenziate dal ministro Nordio, fino all’annunciata l’annunciata correzione della carcerazione preventiva, in senso “garantista”, ovvero per favorire i colletti bianchi tradizionalmente scudati dalla destra che ha ormai abiurato l’antica vocazione legalitaria (legge e ordine) per convertirsi alla deregulation selvaggia.
Garantismo e riformismo vanno a braccetto, si portano su tutto e da tutti. Filano d’amore e d’accordo tanto nelle fila della destra che fra una sedicente sinistra perennemente ondeggiante fra tentazioni legalitarie e derive antiautoritarie e sguazzando nel guado dell’incertezza lascia campo aperto ad ogni avventura e risulta poco attrattiva e affidabile per chi on Liguria, ed è la maggioranza, non ha mai votato per Toti e soci. E fatica a tornare alle urne. In Liguria si voterà entro 90 giorni a l’area che ha fatto opposizione a Toti e alla destra farà bene ad organizzarsi a tempo di record, rinunciando ad inseguire il meglio che è nemico del bene, accontentandosi di ciò che si riuscirà a costruire. Senza cadere in trappole fin tropo scoperte.
Tipo questa. Matteo Renzi, ridotto a guidare un irrilevante partito bonsai riorienta la barra di IV dal defunto centro verso sinistra (ohibò, sinistra…), disperatamente si aggrappa al progetto di rientrare nel campo largo del centrosinistra e coglie al volo la palla delle imminenti elezioni liguri per assicurare il proprio appoggio alla coalizione che dovrebbe rispedire definitivamente a casa Toti e la sua combriccola. Il commento del senatore-conferenziere sul caso Toti è che la destra non lo ha difeso abbastanza, all’insegna del garantismo dovuto a chiunque, persino a chi è inchiodato da prove talmente nitide che avrebbero indotto la procura a chiedere il giudizio immediato. Eventualità che le dimissioni di Toti neutralizzano. Ci si può fidare di un camaleonte così?
Mi piacerebbe conoscere l’interpretazione autentica del pensiero della segretaria d Pd, Schlein che aveva mostrato attenzione verso la profferta di rientro nei ranghi del centrosinistra da parte del senatore di Rigano. Ovvero se davvero Schlein crede di riuscire ad individuare “convergenze programmatiche” su temi specifici con Renzi, sulle quali cementare l’erigenda alleanza politica allargata sul piano nazionale per rimandare Meloni e i suoi scherani all’opposizione. Al netto del via libera tutt’altro scontato da parte di Conte, che Renzi per anni ha ricoperto di ingiurie, mi chiedo quale possibile terreno d’intesa la segretaria del Pd intravvede con l’ex Rottamatore, che aborre il reddito di cittadinanza, il salario minimo e difende a spada tratta il suo Jobs Act, che Renzi non vuole estirpare e anzi rivendica orgoglioso (“ha portato un milione di posti di lavoro”. Non l’aveva detto già qualcun altro?) causa viceversa di tante delle diseguaglianze sociali e della precarietà che affliggono il mondo il lavoro e soprattutto i giovani.
Becchino del governo Conte 2 (l’unico con i partiti più votati alle elezioni del 2018, tutti gli altri sono stati esecutivi tecnici che oggi Renzi dice di aborrire), di Renzi non c’è nulla da scoprire. E’ un politico senza scrupoli, trattato in guanti bianchi dall’informazione aggiogata al mainstream della politica politicante, noto per aver prima promosso l’esecutivo Draghi e quindi aver invano tentato di accreditare a Bruxelles l’ex governatore della BCE come il salvatore dell’Unione europea. Già alleato rissoso e inaffidabile di Calenda, che difatti lo aveva scaricato, poi di Emma Bonino con la quale sotto le insegne di +Europa non era riuscito a superare la fatidica soglia del 4 per cento alle Europee. Un trombato di classe, ma pur sempre un trombato che, messo all’angolo, annaspa in cerca di sopravvivenza. Appena apprese le dimissioni di Toti, Renzi si è affrettato a dichiarare che è pronto a schierare IV col centrosinistra ligure senza reclamare candidature per sé o i suoi. E ci mancherebbe altro… Un re Mida alla rovescia che mi auguro il Pd ligure, canonicamente squassato dalle consuete faide interne (dietro le quinte l’eterno Burlando manovra per sabotare la candidatura Orlando) rispedisca da dove è venuto. Ovvero a destra, luogo dello spirito e delle scelte politiche che si attaglia perfettamente a Renzi, soccorrevole alleato coperto del governo Meloni al quale in Parlamento non ha mai fatto mancare i suoi (pochi) voti ogni volta che se ne manifestava la necessità, tipo sulla riforma Nordio. Già, lui è ipergarantista e si capisce…