Arrivato a Palazzo Chigi come garante dell’alleanza tra Movimento Cinque Stelle e Lega, Giuseppe Conte si è trasformato prima in fustigatore di Matteo Salvini dopo la crisi del Papeete, quindi in uomo della provvidenza, leader indiscusso dell’esecutivo che si è trovato ad affrontare l’emergenza coronavirus. A ormai due anni e mezzo dal suo primo incarico, l’”Avvocato del Popolo” si è trovato costretto a dimettersi dopo la nuova crisi di governo, messa in campo stavolta da Matteo Renzi, e in attesa di sapere che panni dovrà vestire in questa nuova fase politica, la sua leadership non sembra più granitica come lo era qualche mese fa.
Martedì 19 gennaio il governo guidato da Conte ha chiesto la fiducia in Senato, ottenendo 155 voti: l’astensione di Italia Viva ha portato il governo a incassare comunque la fiducia, ma con un numero di consensi inferiore al “quorum di maggioranza” di 161 senatori. Una fiducia senza maggioranza, e un governo senza agibilità politica, a meno che non fosse spuntata una stampella, magari sotto forma di responsabili o di un altro partito pronto ad allargare la coalizione di governo.
In queste circostanze, un presidente del Consiglio ha due possibilità: salire al Quirinale per rassegnare le proprie dimissioni o, in alternativa, provare ad andare avanti per recuperare la maggioranza. La prima ipotesi può essere semplicemente un passaggio formale, cui non segue obbligatoriamente la fine del governo. Un illustre precedente a riguardo risale al febbraio 2007 quando il secondo governo Prodi ottenne 158 voti a favore in Senato sulla mozione sulla politica estera con le defezioni dei senatori Fernando Rossi e Franco Turigliatto. In tale occasione, l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano prese atto che il governo era in condizione di poter andare avanti e lo rimandò alle Camere, senza dunque rendere operative le dimissioni.
Conte, tuttavia, ha deciso di comportarsi in modo diverso da Prodi. Forte di piccoli sostegni individuali provenienti dal gruppo misto e da Forza Italia, si è preso una settimana per provare ad accaparrarsi un gruppo più ampio possibile di responsabili, ottenere una maggioranza e mettere così Renzi e Italia Viva fuori dai giochi, relegandoli a una posizione superflue e, magari, riuscendo anche a decimare i renziani in parlamento, accogliendone un folto gruppo tra i responsabili. In questo modo, sarebbe potuto andare avanti col Conte-bis, cavandosela magari con un rimpasto.
Ma perché non si è voluto dimettere in questa settimana? Le dimissioni avrebbero infatti portato alle consultazioni, in cui ogni partito porta il proprio peso specifico e fa le proprie richieste. Di fronte a una maggioranza di governo come quella tra PD e Movimento Cinque Stelle che ormai rappresenta sempre di più un’alleanza di natura politica e non più l’alleanza di comodo contro Salvini nata nell’estate del Papeete, sarebbe ragionevole da parte di un partito chiedere un passo indietro di Conte, ormai di fatto leader di questa coalizione, in cambio del sostegno alla maggioranza, che da governo politico passerebbe a governo di larghe intese.
Il tentativo di Conte di cercare di evitare il giro di consultazioni ha permesso tuttavia a tutti i potenziali “responsabili” di prendere tempo. In uno scenario politico in cui le elezioni, seppur possibili, non sembrano un’ipotesi particolarmente percorribile, tutti hanno deciso di attendere il fallimento del tentativo di mettere in piedi una maggioranza per ripartire da zero, magari con un Conte ter o con un nuovo nome. Così facendo, i vari partiti e gruppi interessati a un ingresso nel governo potranno far pesare le loro richieste e il loro valore politico. Un esempio: Italia Viva, che la maggioranza in questa settimana ha cercato in tutti i modi di tagliare fuori dalle trattative per il governo, sembra oggi l’interlocutore più accreditato per far nascere un nuovo esecutivo, ma il fatto che a guidare questo governo sarà Conte è un fatto tutto da scoprire.
PD e Cinque Stelle hanno lasciato intendere con i fatti che se si dovesse andare al voto, si presenterebbero in coalizione e a guidarli sarebbe proprio lo stesso Conte, che a questo punto non è più un semplice presidente del consiglio, ma un vero investimento per il loro futuro. Qualsiasi allargamento della maggioranza a forze politiche esterne a tale coalizione rischia concretamente di passare dalla testa dell’avvocato del popolo, la cui leadership nell’esecutivo non sembra più un fatto scontato.
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