“La bellezza capita”. E io lo sapevo che avrei dovuto spegnere la televisione subito dopo la magnifica spogliazione francescana di Achille Lauro, temerario e romantico anticonformista, abile a trasformarsi da nipote di Vlad Tepes griffato Belfagor a ciclo-amatore glitterato in posa ascetica proto-mistica mentre sbatte in faccia alla platea il suo menefreghismo.
Fino a quel momento tutto era andato gioiosamente per il verso giusto, Amadeus si era scusato per le figure barbine, Fiorello aveva tenuto botta con il suo solito amabile spirito fragoroso, Al Bano e Romina si erano intrattenuti assieme al pubblico nel ricordo dei vecchi tempi andati.
La performance del talentuoso artista romano sarebbe stata la degna chiosa spumeggiante di una serata festivaliera infrasettimanale senza infamia e senza lode. E invece, d’un tratto, come spinta dalla mano di Lord Voldemort, ecco apparire alla ribalta Diletta Leotta, un po’ gigiona e un po’ laureata in giurisprudenza, con la faccia di chi sta per mandare a schifio uno spettacolo in mondovisione in un battibaleno, e parla quasi subito, e dice “ la bellezza capita”, che uno non fa a tempo a correre al bagno per l’ultima pipì dopo la pubblicità e già si sente pervadere dall’angosciante brivido dell’imbarazzo indotto dal catodo in modalità Villa Arzilla.
Che cosa starà pensando questa donna mentre parla, dudù dadadà, puli puli pu fa il tacchino, da Trieste fino a Duino ho impegnato il mandolino? Non si sa, non ci è dato sapere, eppure continua a dire boiate senza soluzione di continuità, tanto che un direttore artistico serio sarebbe piombato sul palco immediatamente per interrompere la mattanza genitale e chiedere venia all’audience.
“La bellezza capita”, afferma Leotta con piglio alla Charlize Theron, che una roba del genere non l’avrebbe detta mai nemmeno sotto tortura, come se la chirurgia estetica non l’avesse trasformata, negli anni, in un’altra persona, come se gli Avengers fossero prossimi a regalare all’umanità secoli di pace e prosperità e la dea Afrodite fosse sua consigliera spirituale.
A un certo punto credi sia finita, ma già ti eri sbagliato in passato con i soliloqui musicali di Claudio Baglioni, e il dramma è ancora lontano dalla sua naturale conclusione. Infatti, dopo pochi secondi, Diletta evoca la nonna, quella che le ha insegnato come fare a gestire e amministrare tutta la bellezza che per culo le era capitata, e la indica in platea, mentre nel silenzio agghiacciante dell’Ariston crolla la balconata centrale e i lineamenti della già citata nonna, invece, restano marmorei e scolpiti come il Discobolo di Mirone.
Se non esistesse Live-Non è la d’Urso ci troveremmo di fronte al peggiore momento televisivo dalla creazione universale fino ai giorni nostri, buttato lì così, come se fosse normale disintegrare la Rai in una manciata di minuti, una vera e propria grandinata mandata in onda a tradimento. Anche il dito sul telecomando capita, nonostante il sonno sia ormai venuto meno, e funziona benissimo saltellando da tasto a tasto, da una vendita di pignatte a un film avanguardista uzbeko sottotitolato in tedesco, in attesa di rientrare nei ranghi per la seconda serata, che magari chissà, si potrebbe perfino cominciare a parlare un po’ più di musica.