Quando Draghi si è presentato in conferenza stampa lunedì sera, si è subito capito che sarebbe stato un incontro molto diverso da quello pre-natalizio: cambiati i toni trionfalistici con cui aveva parlato da «nonno delle istituzioni» in procinto di salire al Colle, il premier questa volta appariva sulla difensiva arrivando persino a scusarsi (un po’ goffamente) per aver «sottovalutato» che fosse necessario parlare agli italiani (bontà sua!) dopo aver reso obbligatorio il vaccino per gli over 50. L’intento era, e rimane, il medesimo: sparire dai radar. Come ogni candidato al Quirinale che si rispetti.
Ma lui non può, e qui risiede il primo cortocircuito: infatti SuperMario è anche l’attuale Presidente del Consiglio, non può sottrarsi, deve necessariamente parlare e farsi vedere. Il secondo inceppo è questo: incredibile a pensarsi e a dirsi, ma sotto i piedi di Draghi il terreno sta gradualmente franando perché, per la prima volta, i partiti hanno capito di essere anch’essi indispensabili per il premier (ai fini di una sua elezione al Colle), e non solo viceversa come sin qui la vulgata ha voluto. Il fatto stesso che il capo di governo ambisca così esplicitamente al Quirinale lo rende improvvisamente più vulnerabile, “politicamente ricattabile”, uguale a loro e per questo debole come loro (i parlamentari).
Del resto, pensateci: mai come oggi Draghi appare distaccato e stanco, apatico, con la testa completamente altrove rispetto a quelli che sono i problemi e i timori degli italiani. La partita che sta giocando è sua e solo sua, e nulla ha a che spartire con gli interessi del Paese.
Per inciso, poi, il fatto che non voglia che si parli di Quirinale tradisce un nervosismo che lo rende tutto fuorché “anglosassone”, così come alcuni osservatori politici hanno ribattezzato lo stile elegante dei suoi “no comment”. E su questo val la pena spendere due parole: porre un veto ai giornalisti sulle domande da fare, ancor di più se in un anno hai rilasciato una (dicasi, una) intervista, non è certo ciò che ci si aspetterebbe da un leader così apprezzato in tutto il mondo. Beninteso: ciascuno risponde a ciò che vuole, come vuole, quando vuole. Ma così come non è vero che esiste una blacklist per chi può entra- re e chi no a Palazzo Chigi, va invece denunciato che avviene eccome una selezione sulle domande e sui temi da affrontare (con conseguente baratto fra giornalisti). Ciò non ha senso. Ora però le cose si complicano perché i partiti si stanno parlando. Pd e 5s tentano il tutto per tutto con l’operazione Mattarella bis. Salvini è tentato.
La Meloni è contraria per via dell’eccezionalità di un capo dello Stato rieletto (come però già accadde con Napolitano). Berlusconi non pare avere reali chances e ha fatto sapere che toglierebbe la fiducia al Governo qualora il premier andasse al Colle.
E difficilmente questa maggioranza reggerebbe senza lo stesso capo di governo (forse è a rischio persino così, da oggi in poi). In ogni caso ha, al più, un altro anno di vita. La via è stretta e di nomi davvero in ballo ce sono solo due: Draghi o Mattarella. Per cui o il premier trasloca al Colle, e però allora il governo deve cadere per far spazio a un altro esecutivo retto da una maggioranza politica diversa, oppure suo malgrado, obtorto Colle, viene rieletto Mattarella e Draghi si troverà nel cul-de-sac di Largo Chigi. Con buona pace della politica. E di quel che rimane dell’establishment italiano, incapace negli ultimi 12 mesi di individuare un altro nome che non fosse quello di SuperMario, e anzi capace solo di incensarlo. Ecco il conto che ci troviamo a pagare.