Uno dei detonatori dell’autunno caldo evocato dalla ministra dell’Interno Lamorgese sarà la revoca o riforma dei cosiddetti decreti Salvini, quelli in materia di sicurezza e immigrazione, su cui però entrambi gli schieramenti politici sembrano navigare ancora a vista. Incapaci di affrontare una vera e propria bomba ad orologeria, da disinnescare prima che diventi un serio problema di ordine pubblico, con sbarchi quadruplicati e fuori controllo. Come a Lampedusa, dove la stessa Lamorgese ha fatto di recente visita in qualità di rappresentante dello Stato, ma anche di una classe dirigente trasversalmente sotto accusa per la maladministration/malagestio dell’accoglienza e per il coinvolgimento, come vedremo, dell’attuale Capo della Polizia, rimasto trasversalmente indenne nel passaggio sotto i ministri Alfano, Minniti e Salvini.
È anche un problema di ordine pubblico sanitario, con clandestini contagiati dal Covid-19 e poliziotti in quarantena: pensiamo ai 25 agenti del Commissariato di Polizia di Siderno, in provincia di Reggio Calabria, o ai 14 operatori della Questura e della Polizia stradale di Udine, mandati allo sbaraglio ad identificare i clandestini prima del risultato dei tamponi, o ancora alle rivolte e fughe dai centri di accoglienza stracolmi oltre la dignità umana e ai centinaia di edifici pubblici e privati occupati, adesso anche chiusi in zone rosse.
E il problema è anche di ordine pubblico economico nazionale ed europeo, considerati i costi esorbitanti – dagli spostamenti/ricollocamenti da sud a nord dei migranti contagiati alle navi-quarantena da 1 milione di euro al mese -che si sommano a quelli già lievitati negli ultimi anni per l’accoglienza, con l’aggravante delle infiltrazioni della criminalità organizzata.
Ma la classe politica sembra per adesso ancora disorientata o condizionata da interessi di parte. La Lega appare offuscata da sovranismo, nazionalismo e populismo, sino ad accettare il rischio di violare le norme sull’obbligo di soccorso in mare, diritti di asilo, salute, accoglienza e integrazione. Il Pd sembra in crisi di astinenza a fronte dei miliardi di euro del business dei migranti scivolati sotto la patina di “buonismo solidale” tra Ong, Onlus e Coop rosse, con Buzzi che ghignava “con gli immigrati si fanno molti più soldi che con la droga” e veniva commissariata Ostia per mafia (e non Roma, inspiegabilmente graziata nonostante le gesta di Carminati e la subordinazione delle istituzioni capitoline emersa da Mafia Capitale o Mondo di mezzo).
Ma – a prescindere dalle scelte politiche che verranno fatte nei prossimi mesi in materia di sicurezza e immigrazione, che per essere efficaci dovranno innanzitutto dimostrarsi come frutto di competenza, serietà e affidabilità – nel frattempo sarà necessario il ricambio/risanamento di una classe dirigente della pubblica sicurezza che appare inadeguata, soprattutto perché, come detto, sempre più coinvolta in episodi di “malalegalità”, in particolare, proprio in materia di immigrazione.
Una classe dirigente che si è ormai stratificata e sclerotizzata nelle stanze del Viminale e radicata sul territorio tramite prefetture e questure, con vertici trasversali ed inamovibili, nonostante i cambi sulla carta delle politiche migratorie per l’alternanza centrosinistra-centrodestra, ma pure l’infiltrazione della famelica criminalità organizzata attratta dai capitali dell’emergenza immigrazione e l’emersione sempre più evidente di corruzione o peggio collusione ‘istituzionale’.
Basti pensare che, incrociando i dati di documenti di economia e finanza (Def), relazioni della Corte dei conti e rapporti del ministero dell’Interno sull’accoglienza dei migranti, da un’inchiesta su iltempo.it è emerso che nel periodo 2010-2018 sono stati spesi quasi 20 miliardi di euro per soccorso in mare, spese mediche e istruzione dei migranti. Ma soprattutto per la costituzione e il mantenimento di una ridda di strutture e sigle in continuo confusionario cambiamento effetto ‘muina’: CSA(Centri di accoglienza straordinaria), CPSA (Centri di primo soccorso e accoglienza), CPA (Centri di prima accoglienza), CDA (Centri di accoglienza), CIET (Centri di identificazione ed espulsione temporanei), CIE (Centri di identificazione ed espulsione), CPR (Centri di permanenza per il rimpatrio), CARA (Centri di accoglienza per i richiedenti asilo), HOTSPOT (Hub chiusi per clandestini e aperti per rifugiati), SPRAR (Sistema di protezione per i richiedenti asilo), SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati), ecc…
Per non parlare del fiume di indagini giudiziarie, nonché inchieste, interrogazioni e interpellanze parlamentari, che negli ultimi anni hanno visto il coinvolgimento di decine di alti dirigenti e funzionari arrestati, condannati o imputati per gravi reati legati al fenomeno migratorio (associazione a delinquere, corruzione, omissioni, falsi, rivelazione di notizie riservate, maltrattamenti, truffe, frode nelle pubbliche forniture, turbativa d’asta, bancarotta fraudolente, peculati o illeciti erariali) da nord a sud (Asti, Varese, Savona, Gorizia, Venezia, Padova, Latina, Campobasso, Benevento, Cosenza, Foggia, Brindisi, Reggio Calabria, Catania, Agrigento, ecc…).
Sino a giungere all’escalation sui CARA di Pozzallo, Crotone e alla madre di tutte le indagini, quella sul CARA di Mineo, intrecciata con Mafia Capitale che ha avuto come fulcro il pluricondannato Luca Odevaine, per anni tanto stimato, supportato e lanciato dai vertici del Viminale nel cuore della gestione del fenomeno migratorio, fino al suo clamoroso arresto.
Il vulnus del sistema che paghiamo ancora oggi è rintracciabile in un articolo del 2007 pubblicato su repubblica.it, quando Odevaine, all’epoca vice capo di gabinetto del sindaco di Roma Veltroni, presenta il decalogo che “costituisce l’ossatura dell’accordo che Roma firmerà a breve con il Viminale. Al quale sono state chieste risorse e interventi legislativi mirati per far fronte alle principali emergenze” e che “si basa su due capisaldi, decoro e sicurezza, per lo più legati alla montante ondata migratoria”, per cui “sono già state individuate 5-6 aree fuori dal raccordo dove allestire altrettanti insediamenti attrezzati, capaci di ospitare tra 1.000 e 1.500 persone. Ingenti le spese previste, almeno tre milioni a campo”.
Dopo la redazione di questo “decalogo”, Odevaine ha avuto un’ascesa inarrestabile: diventa prima Capo della Polizia della Provincia di Roma di Nicola Zingaretti, poi componente del Tavolo di coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale, nel cuore del Viminale, fino ad essere nominato consulente del CARA di Mineo ed infine componente della Commissione aggiudicatrice della gara d’appalto da 100 milioni di euro, per la gestione del centro. Tutto ciò senza che nessuno si fosse mai accorto che nel 1989 era stato condannato a due anni di reclusione per stupefacenti, pena per la quale gli è stato concesso l’indulto nel 1991 e la riabilitazione nel 2003. Ma in effetti le condanne sono due, ce n’è anche un’altra, nel 1991, per emissione di assegni a vuoto, reato poi depenalizzato.
Nonostante tutto, come testualmente riporta il Gip di Roma nell’ordinanza di Mafia-Capitale, lo stesso “attraversa, in senso verticale e orizzontale, tutte le amministrazioni pubbliche più significative nel settore dell’emergenza immigrati” e “siede al tavolo di coordinamento dell’immigrazione quale espressione dell’Unione province italiane, in forza della nomina di un presidente di Provincia che non è più tale, senza che nessuno se ne accorga, così consentendogli lo svolgimento di una funzione privo di una qualunque legittimazione”.
Ma ancor più grave, rincara il Gip, “per non compromettere le sue possibilità istituzionali si fa cambiare il cognome [ndr – da Odovaine a Odevaine] a seguito di condanne riportate”, con un escamotage “di cui nessuna delle amministrazioni interessate si accorge”. Dopodiché Odevaine o Odovaine viene condannato dal Tribunale di Catania a 3 anni e 2 mesi per corruzione nell’appalto del CARA di Mineo, nonché dalla Corte d’appello di Roma a 8 anni nell’ambito di ‘mafia-Capitale’.
La domanda sorge spontanea: chi ha permesso che tutto ciò accadesse? Chi doveva accorgersi che non era la persona giusta al posto giusto? Chi lo ha supportato in tutti questi anni? L’attuale Capo della Polizia, quando era Capo della Protezione civile, nonché Commissario per l’emergenza profughi e gli venne proposto Odevaine per il CARA di Mineo, affermò “nulla osta da parte del commissario in ordine al conferimento dell’incarico in considerazione della nota professionalità posseduta dal dottor Odevaine”. Ma dopo il suo clamoroso arresto nell’ambito di Mafia Capitale lo stesso si è dovuto poi giustificare in Tribunale ammettendo che “con Odevaine c’era un rapporto che si può avere con una persona stimata”. “Lo stimavo sì, tutti possono sbagliare nella vita”, disse.
Solo che il suo errore pesa oggettivamente molto di più, perché – prima di esprimere quel nullaosta e quella stima per Odevaine o Odovaine – l’attuale Capo della Polizia, oltre ad essere stato Dirigente della DIGOS della Questura di Roma, era stato anche direttore della Direzione centrale della polizia di prevenzione, del SISDE – Servizio per l’informazione e la sicurezza democratica, nonché dell’AISE – Agenzia informazioni e sicurezza interna, quindi in possesso di tutte le informazioni e gli strumenti che gli avrebbero dovuto far accendere il campanello di allarme, che invece è rimasto spento.
D’altronde si tratta dello stesso Capo della Polizia che, anziché sanzionarli, ha “promosso” a ruoli apicali i dirigenti condannati con sentenze passate in giudicato per i fatti del G8 di Genova: il primo a 3 anni e 8 mesi per i falsi del G8, posto al vertice della Direzione investigativa antimafia – DIA (l’organismo che dovrebbe indagare sulle infiltrazioni mafiose anche nella lucrosa gestione dell’immigrazione) e il secondo a 3 anni per aver portato le ‘false’ molotov, posto al vertice del Centro operativo della Polizia stradale di Roma e Lazio, il più grande d’Italia.
Lo stesso che ha promosso il Questore di Palermo dirigente generale (gradino precedente la nomina a prefetto) e il Questore di Rimini a capo della Polizia ferroviaria, nonostante siano stati entrambi rinviati a giudizio per il sequestro – quando erano rispettivamente capo della Squadra mobile e dell’Ufficio immigrazione della Questura di Roma – della moglie e della figlia minore di un dissidente politico, oggetto di ritorsioni da parte del presidente del Kazakhistan cui le stesse sono state invece impunemente consegnate: meglio noto come caso Shalabayeva.
Lo stesso Capo della Polizia che ha firmato un accordo con il suo omologo del Sudan in base al quale sono stati effettuati quelli che sono apparsi “rimpatri collettivi” di 40 cittadini sudanesi fermati a Ventimiglia, vietati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), tanto che su di essi pendono ricorsi ammessi dalla Corte europea dei diritti umani, che nel 2012 ha già condannato l’Italia per i respingimenti di massa in Libia…
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