Crisi di Governo? E se a far saltare il banco fosse il Pd?
Politicamente parlando, è come se fossimo in quello che Stefan Zweig ha definito “il mondo di ieri”. È come se fossimo al 27 giugno 1914, un giorno prima dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando e della sua consorte ad opera di Gavrilo Princip. Non è ancora chiaro chi potrebbe essere l’irredentista in grado, con un gesto scellerato, di mandare il governo a gambe all’aria ma se persino un grande vecchio come Macaluso prospetta con rara lucidità un voto in autunno, vuol dire che qualcosa di vero c’è.
Parliamoci chiaro: senza il Coronavirus, probabilmente, a quest’ora, saremmo nel bel mezzo di una campagna elettorale, essendo evidente ciò che lo stesso Mattarella si è affrettato a ribadire, con tono felpato, in questi giorni, ossia che in caso di caduta di Conte non sono possibili altre maggioranze in questa legislatura. L’ipotesi Draghi non esiste. Piace molto a qualche editorialista e a qualche testata in crisi d’identità ma non è realistica, per il semplice motivo che il diretto interessato non accetterebbe mai di trasformarsi nel parafulmine di una classe dirigente in ginocchio e più che mai screditata agli occhi dell’opinione pubblica.
Il solo fatto che si debba discutere di argomenti simili in un momento tanto delicato per il Paese, con dati impressionanti per quanto concerne il debito pubblico ma, soprattutto, la povertà effettiva di milioni di persone e di famiglie è indicativo dello stato comatoso in cui versa il sistema politico italiano.
Il punto, come dicevamo all’inizio, è che anche prima degli spari di Sarajevo ci si illudeva che la Belle Époque fosse una condizione permanente e che nessun evento l’avrebbe potuta turbare. Ci si illudeva che il quarantennio di pace iniziato dopo la guerra franco-prussiana del 1870 sarebbe durato ancora a lungo e si ignoravano le numerose avvisaglie di un’imminente catastrofe che oggi ci appaiono chiarissime ma che all’epoca ben pochi furono in grado di cogliere e quasi nessuno di denunciare per tempo.
Non per voler essere tragici ad ogni costo, ma anche i più accaniti governisti sono stati costretti a prendere atto che lo scontro fra un ministro simbolo del M5S come Bonafede, demiurgo dell’operazione Conte e vicinissimo a Di Maio, e un punto di riferimento del grillismo come il pm Di Matteo abbia lasciato strascichi pesantissimi in quel mondo. Il M5S, infatti, era un soggetto prossimo all’implosione prima della pandemia ed è ormai quasi archiviato, al netto dei sondaggi che lo danno risalita. La politica, difatti, non è solo una questione di numeri e posizionamenti: per occuparsene occorre una visione, un’idea, un messaggio ben preciso e i 5 Stelle ne sono sprovvisti.
Nell’epoca del ritrovato bisogno di competenza, della paura per la propria stessa vita che ha trasformato milioni di italiani in fan di virologi che fino a due mesi fa nessuno conosceva se non nel loro ambito, del trumpismo globale che divide e polarizza tutto e del ritorno in scena di concetti come il ruolo dello Stato nell’economia e nella produzione industriale, non c’è alcuno spazio per i vaffa e i toni urlati che hanno costituito la fortuna del partito tuttora egemone in Parlamento.
Lo stesso vale per Italia Viva, nata dal desiderio di rivalsa di Renzi nei confronti del Pd e oggi priva del benché minimo margine di manovra, dato che ben pochi sono coloro che, in quel contesto sarebbero disponibili a seguire Renzi nella follia di un eventuale strappo.
E allora perché l’esecutivo rischia di svanire all’arrivo dell’estate? Perché c’è un terzo soggetto, in questa compagine, che a parer mio si è stufato ed è il Pd. Dietro la consueta immagine di partito serio e responsabile, non c’è dubbio che i dem, forti anche dell’indebolimento di Salvini rispetto ad agosto e confortati dalla pressoché assoluta certezza che il leader della Lega avrebbe forse i numeri per essere ancora il partito di maggioranza relativa ma non certo il soggetto che esprime il presidente del Consiglio, comincia a serpeggiare dalle parti di Zingaretti l’idea di fare chiarezza, di porre fine a un’esperienza difficile e travagliata e magari di provare a costruire intorno alla figura di Conte un qualcosa di nuovo e di diverso, aprendo lo spazio a scenari del tutto inediti ma comunque interessanti e meritevoli, se fosse, di essere presi in seria considerazione.
Lo sparo decisivo, insomma, potrebbe arrivare non per esplicita volontà di qualcuno ma per l’ineluttabilità degli eventi, ormai prossimi a precipitare per via delle troppe contraddizioni che caratterizzano l’attuale assetto di potere. Non è detto che il patatrac avvenga già nei prossimi giorni, in occasione dell’annunciata mozione di sfiducia della destra di danni di Bonafede. La storia ci ha insegnato che le più grandi rivoluzioni sono state precedute da un’apparente calma piatta.
Qualora Renzi dovesse iniziare a tacere, ci sarebbe davvero da preoccuparsi. E forse è lo stesso Conte a non essere poi così ostile all’idea di cimentarsi con una campagna elettorale in prima persona, ponendosi come novello Prodi in una stagione di macerie e disperazione nella quale non è rimasto quasi più nulla e bisogna aguzzare l’ingegno per provare a ripartire.
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