Ormai siamo in piena “Tamponopoli”: mezza Italia in fila nei Coronavirus Drive In, o in caccia del sospirato tampone, migliaia di classi bloccate nelle scuole (come quella di mio figlio). Quello che segue è un piccolo racconto dell’orrore e dell’assurdo, ovvero di quello che può capitare a qualsiasi genitore italiano, se finisce nel tritacarne oggi, dati i protocolli sanitari (pieni di bachi) attualmente in vigore. In parte era inevitabile, in parte no, e provo a spiegare perché a partire dalla mia esperienza di avventura estrema (uguale a quella di migliaia di italiani, in queste ore) nel “circo Orfei” che è stato determinato da questa nuova fase della Pandemia.
Il motore primo di questo caos di procedure e autorità è prodotto – come è noto – dal solito genere di prima necessità che scarseggia ormai da otto mesi: i test. Il primo volano moltiplicatore della necessità dei tamponi (era già chiaro a tutti) sono stati i “ritorni” dalle vacanze. Il secondo volano (e sapevamo anche questo) la riapertura delle scuole: due eventi inevitabili, previsti, e addirittura normali (in linea teorica) dalle autorità sanitarie. Non stanno aumentando i positivi: stanno aumentando i controlli fra quelli che in primavera non abbiamo controllato: i più giovani. La stragrande maggioranza dei casi, tuttavia, sono positivi asintomatici, e anche questo è noto.
Tuttavia, come dimostrerà questa storia dal punto di vista burocratico e informativo questa differenza scompare: quando tocca a te diventi subito appestato. Intanto, proprio per questo motivo, a Roma e a Milano e in tutte le città le code diventando chilometriche, c’è chi è rimasto in fila per una intera giornata (e questo non era scontato). Ecco una piccola storia che spiega cosa non funziona e perché, nella catena sanitaria che finora si è attivata poco e male.
Questa la successione dei fatti che sono accaduti nella nostra comunità: 1) Si contagia un ragazzo che non conosciamo in una squadra di calcio di Roma. Questo ragazzo è – ovviamente – a contatto con i suoi compagni di squadra, tra cui un amico carissimo di mio figlio (che io ho visto crescere). 2) la Asl, avvisata dalla società, avrebbe dovuto subito tracciare tutti i compagni della squadra, preferibilmente entro 48 ore (così ci avevano assicurato) e condurre l’indagine epidemiologica (nello stesso tempo): ma tuttavia non lo fa (quando gli arriva la notizia) e non lo ha fatto (ancora adesso, dieci giorni dopo).
3) Uno di questi compagni di squadra del ragazzo – una bravissimo ragazzo, lo chiamerò “il sofferente zero”, capirete tra poco perché – è un carissimo amico di mio figlio, si può dire che lo abbiamo visto crescere, fa parte di un gruppo di amici molto bello e trasversale che non coincide con una singola classe, e nemmeno con una singola scuola: tuttavia risulta positivo ed è nella stessa scuola di mio figlio. Io, genitore, so che ha passato due pomeriggi con mio figlio, grazie al senso di responsabilità dei ragazzi che si “autodenunciano” (e della madre, che ci informa): di fatto i ragazzi si “tracciano” da soli e ci dicono con chi sono venuti in contatto e quando.
4) A questo punto, però, la classe del “sofferente zero”, e lui stesso, dovrebbero essere – di nuovo – tracciati dalla Asl e sottoposti ad indagine epidemiologica, perché sono di fatto un nuovo focolaio (non perché lo decidiamo noi, ma perché lo dicono le linee guida che ha tracciato il Comitato tecnico-scientifico). Solo così, infatti, salterebbero fuori i tanti contatti amicali (ad esempio mio figlio) che hanno avuto rapporti intensi con il ragazzo nei giorni in cui si è “positivizzato”. La madre informa tempestivamente gli altri genitori della sua classe via chat (non avrebbe nessun obbligo, ma già prima del risultato non lo ha mandato a scuola per proteggere gli altri).
5) E ancora una volta la Asl risulta non pervenuta: nessuna tracciatura nella squadra da cui si origina il focolaio, nessun tracciamento nella classe in cui è nato un nuovo focolaio (che a questo punto è entrato in una scuola), nessun test, nessuna indagine epidemiologica con il “sofferente zero” per domandargli con chi sia stato a contatto. La Asl viene informata (di nuovo dalla madre de ragazzo) e allo stesso modo la scuola (a pensarci bene in un paese serio, tipo la Germania, sarebbe dovuto essere esattamente il contrario). Nel momento in cui scrivo sono già passati 10 giorni dal primo contagio (saranno intasati, immagino, ma questo diventa un problema) perché 6) la notizia della positività scatena il panico, e terremota i fragili protocolli formali e informali. Ecco un esempio: tra i genitori, ovviamente, scatta una corsa al “Si Salvi chi può!” per fare i tamponi ai propri ragazzi. Come? Arrangiandosi con vie di fortuna tipo amici e conoscenze (chi ne ha la possibilità) o seguendo la via legittima (noi abbiamo fatto così) con la domanda del medico di base.
7) Il secondo problema è che ogni medico di base osserva un margine di discrezionalità e applica a sua volta delle direttive: alcuni autorizzano i tamponi per i ragazzi (per via del contatto con il “sofferente zero”), alcuni anche per i genitori, altri visitano per riscontare i sintomi, altri non visitano e certificano da casa (per limitare i contagi). Alcuni fanno resistenza ad allargare il tamponamento perché hanno avuto indicazioni restrittive dalle autorità sanitarie (per fortuna il nostro medico è persona seria ed informata) nel tentativo di ridurre il flusso dei tamponi. E qui faccio un esempio evidente della prima follia: che senso ha non tamponare immediatamente i genitori di un positivo? Tanto dovrebbero essere tamponati subito dopo. Ma se il “dopo” della ASL è dopo dieci giorni, ha senso che loro (più vulnerabili al virus) possano circolare mentre i loro figli quarantenati non possono una Irs di casa? E così? “Ovviamente non ha nessun senso, ma il buonsenso in questa storia è smarrito nel cortocircuito tra “protocollite” e realtà. Un’altra perla”. Ieri leggo una intervista del professor Feancesco Vaia, responsabile scientifico dello Spallanzani (lo troveremo anche più avanti) in cui dice che i medici “non devono limitarsi a prescrivere tamponi”. Cosa dovrebbero fare, di grazia?
8) L’impatto di questa catena sulla fragile struttura della scuola è disastroso: alcune classi finiscono in “Dad” (l’ormai celeberrima didattica a distanza, per chi non è cultore della materia) altre no, si crea un problema a cascata perché i professori che finiscono come i ragazzi in quarantena 9) Vengono considerati in alcuni casi (dal punto di vista sindacale-lavorativo) in “malattia”, mentre in altri casi no. Il che significa che nel secondo caso, anche se sani, possono rifiutarsi di insegnare da casa. 10) Ed ecco il primo effetto-limbo creato da un protocollo demenziale (e noi lo avevamo scritto in tempi non sospetti, leggi qui, quando era stato varato): la Asl – come abbiamo visto – è velocissima nel dichiarare le quarantene dei ragazzi (accade dopo ogni contagio, con una decisione che blocca tutti per 14 giorni salvo tamponi) perché questo ovviamente non le costa nulla, ma è lentissima (in quindici giorni, nel mio piccolo caso, tre focolai collegati, nemmeno una indagine) a tamponare e a tracciare.
11) “Siamo sommersi di richieste!”, dicono ai referenti Covid delle scuole. Fra l’altro: non tutti sanno che professori, dirigenti scolastici e ministero NON hanno responsabilità sanitarie (che sono in capo ad Asl e ministero della Salute. Caso opposto e paradossale (e purtroppo vero), un mio amico con figlia positiva la trattiene a casa e riceve una chiamata del dirigente scolastico che lo rimprovera: “Lei fa questo senza il permesso della ASL. Come si permette?”. Ma la domanda è: quando questa estate il professor Crisanti (e tanti con lui) aveva spiegato che sarebbero serviti tre- quattro milioni di tamponi, proprio per via dell’indotto scuola, dove stavano i membri del Cts? Come mai, a otto mesi dalla pandemia, ancora nessuno di loro prende atto del fatto che queste regole – in virtù dei protocolli che loro stessi emanano – inducono un bisogno immediato di tamponi per milioni di esami? Mistero.
12) In ogni caso, come si evince, in mancanza di regole e tempi, tutta questa tensione si scarica sui ragazzi: chi reagisce con rabbia, chi deprimendosi, chi in entrambi i modi, chi addirittura cercando responsabili o “untori”. Sembra una follia, ma quando arriva la paura questa esperienza ci dice che può saltare ogni vincolo di cortesia o di amicizia (o, per fortuna, anche il contrario). 13) Ci sono, ad esempio, genitori che dopo gli esami, hanno paura di divulgare nelle chat la notizia della positività dei figli. Perché? Per tutto quello che abbiamo detto al punto 12, visto che il serpente si morde la coda. Però, secondo questi scienziati, si può fare il tracciamento con strumenti informali come una chat di classe o di squadra? Ovviamente no. Non dovrebbe essere così, non esiste nessuna scientificità in questa procedura, solo buona volontà. Rispetto al nulla del percorso istituzionale, viceversa, è moltissimo.
14) Anche il tampone “fai-da-te” con il medico di base, sembra una sciocchezza, ma crea un altro problema di privacy: per ottenerlo devi dichiarare il nome del “contagiato zero” (adesso capite perché sofferente) con cui sei entrato in contatto, che è il motivo per cui lo vai a fare. Ma in molti casi i ragazzi, e i genitori dei ragazzi (cosa non condivisibile, ma comprensibile) dicono: “Il nome di mio figlio non deve finire in una chat”. Ed ecco un altro comma 22 che si crea quando manca lo Stato (in questo caso la Asl): per fare l’esame da te hai bisogno del nome del contagiato zero, ma per avere quel nome e inserirlo in una richiesta ufficiale devi violare una richiesta di privacy. Ecco perché tracciamenti e indagine epidemiologica dovrebbero essere condotti (in tempi ragionevoli) dalle Asl, e non dai singoli cittadini. Sulla base delle liste di appartenenza, e non in virtù di una chat.
15) Ed eccoci arrivati al circo di “Tamponopoli”. Quando si contagia il “sofferente zero”, amici di mio figlio (ma non nella sua classe) la fortuna vuole che un genitore mi avvisi sulle tempistiche del leggendario Drive in del San Giovanni: “Luca: sono andato alle 10.30 con mia figlia e alle 21.30 dopo undici ore di fila siamo andati via. Ma senza aver fatto il tampone!”. Questo accadeva sabato. Così domenica mattina 16) Io e mio figlio ci svegliamo alle 4.30 e ci presentiamo alle 5.40 all’ingresso del Drive In. Abbiamo fatto bene: nel sito dell’ospedale e in quello della Asl, tra l’altro, sono indicati orari di partita diversi (alle 8.00 e alle 9.00). Io (fuori Roma per motivi di lavoro) non ero stato con mio figlio nei giorni precedenti, ovvero nel tempo del presunto contagio): quindi – con un “auto protocollo” – da due giorni, anche in casa, sto con una mascherina Ffp2 (e lui pure). In uno di questi giorni, in debito di ossigeno, mi gira la testa, devo andare in balcone a rifiatare per togliermela. Spesa mascherine solo per questi due giorni di passione: 36 euro. Per fortuna me la posso permettere: ma gli altri? E un cassaintegrato che vive con 800 euro mese? I compilatori di questi protocolli non ci hanno pensato (eppure basterebbe un buono di rimborso). Altro tema: che di dire dei poveretti che stanno nel secondo girone dantesco (la fila a piedi) che sta dall’altra parte dell’ospedale? Mistero. Ci pensa qualcuno a cosa accade in quella fila? Mistero. Un altro paradosso: in fila per scoprire il virus, se non sei in macchina (ad esempio tanto anziani) corri il rischio di prendertelo, soprattutto se hai solo una mascherina chirurgica. Penso: dovrebbero distribuire delle Ffp2 a chi sta in fila (ma al sistema interessa la burocrazia, non la sostanza, la forma, non il reale contenimento del contagio).
16) Siamo in macchina, in fila, alle 5.45 del mattino, e scopriamo con grande sollievo che siamo arrivati secondi (“Wow!”), perché prima di noi c’e solo una coppia di pensionati (eroi) che sono angosciatissimi, sono venuti alle 2.00 di notte, e – malgrado la mia FfP2 – comunicano attraverso il vetro scrivendo su un foglio di carta (!!!) e senza abbassare il finestrino (un auto-imposto protocollo, che nemmeno Ebola, ma come biasimarli?). Un altro padre di una ragazza della classe, arriva, anche lui, con una FfP2 e così parliamo del più e del meno, all’aperto, tutti e tre schermati, io e mio figlio: l’altro papà è arrivato quinto, e applica il metodo “cavallo di Troia (lui in fila, madre e figlia lo raggiungono in Ffp2 alle 8.00 quando apre lo sportello). Ci chiediamo: “Ma non abbiamo esagerato a venire così presto?”.
17) prima risposta: non abbiamo esagerato, perché alle 8.20, quando ci allontaniamo dopo aver fatto i tamponi la fila (ed è domenica) è già diventata chilometrica). 18) la tensione è tale che quando una macchina supera la fila per entrare nell’ospedale c’è gente che suona il clacson imbufalita e alcuni che addirittura inseguono il malcapitato urlando: “Mettiti in fila fijo de ‘na mignotta!!!!!”. 19) Falso allarme, è un dipendente. 20) Conversazione in macchina con mio figlio, filtrata dalle rispettive Ffp2: “Papà, sono sicuro di essermi contagiato. Io ho giocato con un positivo”. È preoccupato. Gli rispondo (scherzando) di non aver timore, perché cinque giorni prima abbiamo mangiato formaggio con i vermi (“Casu Marzu”, ne siamo ghiotti) che ho portato dalla Sardegna. “Che c’entra?”, mi chiede giustamente lui. “Sei immunizzato, altro che Rendevisir e Regeneron, altro che le terapie steroidee di Trump. Tu hai fatto la più potente terapia anticorpale esistente in natura”. Mentre sta albeggiando, ridiamo come due scemi, e poi lui esprime il suo scetticismo: “Seeh, magari!”
21) Arrivati al nostro turno facciamo il tampone in un attimo e l’inferno era ci dice: “risposta in 12-24 ore visibile sul sito”. 22) Tuttavia anche lunedì le risposte non sono arrivate. Alcuni genitori tornano a protestare al drive in (eroici). Al terzo giorno – dopo queste proteste – prendiamo tutti il tampone: e tutti i ragazzi sono negativi. Festeggiamo. Mio figlio è felicissimo, come se gli avessero tolto un macigno dal collo. E come lui – ovviamente – tutti i compagni di scuola che risultano ugualmente negativi. Dico a mio figlio, che era stato a contatto con il suo amico più di tutti: “A te ti ha protetto il formaggio sardo con i vermi”. Lui è mia moglie mi prendono in giro (io ne sono convinto). 23) ma torniamo ai massimi sistemi: a fronte di questa situazione, il comitato tecnico scientifico (e molte autorità politiche regionali e nazionali) adotta una linea drammatizzante, di tipo pedagogico-moralistico, del tipo: “Gli italiani pagano gli eccessi di questa estate”. Ho letto – giuro – che un muro del comitato tecnico scientifico dice: “I ragazzi dovranno fare meno feste”. Il bello è che a parte il famoso “focolaio Billionaire” (su TPI abbiamo scritto anche di quello) gli italiani non hanno commesso nessun peccato, e hanno viaggiato su navi, aerei e traghetti perché questo era perfettamente legittimo. I ragazzi potevano fare le feste, a patto di rispettare distanziamento, igienizzazioni e mascherine. Quale colpa avrebbero?
La prima puntata di questo breve diario di giornalista-padre, si chiude con questa considerazione. Sono le autorità sanitarie e il Comitato Tecnico scientifico, in queste ore, che non stanno assicurando il servizio che si erano impegnati a garantire. E non siamo a gennaio, di fronte ad un virus sconosciuto. Siamo ad ottobre, con modelli statistici e precedenti (ad esempio quelli degli altri paesi) che spiegavano dinamiche esattamente identiche a quelle che si stanno verificando ora. In Germania, con un numero quasi identico di contagi nessuno si sogna di dire, come invece ha fatto ieri Francesco Vaia, il direttore sanitario dell’istituto Spallanzani: “I cittadini devono capire che i tamponi non sono una terra promessa, non vanno considerati una meta!”. Ho stima del professor Vaia, una autorità in materia medica, ma davvero non capisco questa affermazione: se lui o suo figlio si trovassero quarantenati a casa non vorrebbero fare il tampone? Se l’assenza del tampone ti blocca, perché ami non dovrebbe essere “una terra promessa?”.
Invece diventa una terra promessa, proprio perché il sistema ti mette ai domiciliari cautelativi proprio finché non hai un tampone negativo. Se non vogliono che accada questo, cambino il protocollo. Un protocollo che la scuola subisce, e cerca di fronteggiare, malgrado produca effetti devastanti per classi e didattica. Ed ecco l’ultima follia del doppiopesismo italiano: le autorità sanitarie (e di conseguenza politiche) terribilmente severe quando si tratta di cittadini e ragazzi, e terribilmente indulgenti quando si tratta delle proprie responsabilità.
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