Ieri, mercoledì 4 novembre, in Lombardia c’erano 7.758 nuovi positivi sugli oltre 30.000 nuovi positivi nel paese (oggi, giovedì 5 novembre, i nuovi casi in Lombardia sono stati quasi 9mila: per la precisione 8.822). Di quei 7.758, 3.613 a Milano, 898 a Monza/Brianza, 607 a Varese, città natale del presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana. Quindi, 5.000 circa lombardi positivi sui 7.700 totali sono spalmati su queste tre province, due delle quali confinanti (Milano e Monza). Credo che non serva un consumato epidemiologo per comprendere che l’area di Milano al momento sia un focolaio e che le proteste dei medici di base e dei cittadini – ancora una volta in balia di una sanità impreparata – siano un segnale disastroso.
In questo scenario, per ragioni che devono avere a che fare col mondo dell’occulto o con la cabala, l’inevitabile Attilio Fontana si erge a quieto portatore di calma e rassicurazioni. “Niente lockdown”, diceva nei giorni scorsi. E l’amico ritrovato Beppe Sala gli faceva eco: “Ad oggi lato Regione Lombardia non si ipotizza nemmeno lontanamente di andare verso un lockdown stile marzo e aprile e io lo condivido!”.
Ora, a parte interrogarsi su questo improvviso feeling tra sindaco e governatore, che entrerà nella lista dei bizzarri effetti collaterali del Covid assieme alla perdita di gusto e olfatto, viene da domandarsi cosa abbiano fatto di male i lombardi – milanesi in primis – per meritarsi questa cialtronaggine senza fine.
Che il gioco più che evidente sia quello di dare l’impressione di voler difendere l’economia della regione e di mollare a Conte la patata bollente di decidere (come ha deciso) di chiudere, l’abbiamo capito. Ergo, se l’intenzione era quella di passare per i due poliziotti buoni che avrebbero permesso ai ristoranti di continuare a fatturare, beh, è andata male. Ed è andato male anche altro, perché, qualora Sala e Fontana non se ne fossero accorti, qui a Milano la situazione è forse peggio che in un lockdown ormai da settimane.
Abbiamo tutti amici, parenti, colleghi ammalati. Il tracciamento è un lontano ricordo (o forse neppure quello), in pochi ormai si chiudono in casa se sono entrati in contatto con un positivo ma fanno valutazioni personali e sommarie sul grado di rischio. I tamponi non sono disponibili nel breve periodo, i medici di base non li fanno e li prenotano, ma i tempi sono di 10 giorni circa, quindi uno che si scopre positivo rischia di stare in isolamento 14 giorni più i 10 di attesa. I tamponi di controllo, poi, altra attesa.
Nessuno lo dice ad alta voce, ma ormai molti sospetti positivi fanno finta di nulla pur di non entrare in questo tunnel infinito di rimbalzi e incertezze. Certo, ci sono i tamponi privati, ma non tutti se li possono permettere, specialmente se li deve fare un’intera famiglia.
Attilio Fontana, ieri, nel protestare contro la decisione di Conte ha esclamato: “Sono numeri vecchi!”. In effetti sono i numeri che vanno dal 19 al 25 ottobre. È probabile che i numeri, da una settimana, a Milano vadano migliorando. Se si rimandano i tamponi a 10 giorni, migliorano di sicuro. Anzi, Fontana potrebbe rimandarli a un anno e vietare i tamponi privati, così arriviamo a contagi zero come l’Australia in 24 ore. Nel frattempo, non so se Fontana se ne è accorto, ma per come stanno le cose oggi in Lombardia, il lockdown di due settimane non è affatto il provvedimento più contestato dai cittadini e dalle categorie di lavoratori che loro credono di difendere.
Questo limbo di mezze misure, di tentennamenti, di negazione dell’evidenza in cui siamo rimasti da settembre in poi non ha fatto bene a nessuno. Le scuole dovevano essere il luogo sicuro e invece sono state un cimitero di classi a casa, quarantene e bambini positivi. La gente ha vissuto una socialità monca, sospesa, galleggiamo in una specie di carboneria sociale in cui ci si vede poco, in tavoli appartati, sentendosi colpevoli di qualcosa. L’economia è agonizzante e questa non chiusura è più una mascherina dell’ossigeno mezz’ora al giorno che una cura. L’epidemia non si è arrestata, ma prosegue a passi che qualcuno reputa giganti, qualcuno piccoli, ma prosegue.
Davvero Fontana pensa che due settimane di chiusura facciano ormai la differenza? Milano non è solo quella del “non ci si ferma”. Milano è piena, anche, di ristoratori che preferiscono chiudere due settimane e rivedere partire qualcosa che restare aperti in questo clima cupo ed economicamente disastroso comunque. È pieno di cittadini, lavoratori e non, che preferiscono due settimane di febbre a 40 che il 37,5 fisso tutto l’anno.
Questa Milano che Sala a Fontana non volevano chiudere era già mezza chiusa. La gente ha paura di ammalarsi, migliaia e migliaia di persone sono in isolamento domiciliare, non c’è lo spirito per fare shopping e pranzare con gli amici, la sanità è in tilt, i vaccini antinfluenzali sono già finiti un po’ dappertutto, in molti – se non l’hanno già fatto – pensano di lasciare Milano per sempre. Perché Milano ora – diciamolo – ha tutti gli svantaggi delle metropoli più importanti (inquinamento, costo della vita altissimo) senza più conservarne i vantaggi (lavoro, economia, opportunità culturali, di svago).
A Milano oggi si resta perché si deve o perché la si ama nel profondo. Perché si spera di rivederla bella come è stata. Altrimenti, vivere qui, oggi è un compromesso difficile.
Certo, la Lombardia non ha la stessa situazione epidemiologica ovunque. ”La situazione epidemiologica in Lombardia è stata presentata come sostanzialmente omogenea, senza grandi differenze tra territori!”, ha tuonato Fontana ieri. Che è vero. Il lodigiano e l’area di Bergamo, per esempio, sono meno colpite. Se sia per l’immunità acquisita o perché i cittadini hanno più paura e usano più prudenza che altrove, è un mistero, ma è così.
Solo che nessuno ha ben capito cosa proponeva, dunque, Fontana. Chiusura differenziata per province? Tutti aperti? Ecco, poteva spiegarcelo, dirci cosa avrebbe fatto al posto di Conte. Perché “Il lockdown no!” non basta, mentre il virus continua a camminare. O pensa che la situazione di oggi in Lombardia sia una convivenza accettabile col virus? Perché se lo pensa gli rispondo io: no, non lo è.
Questa non è convivenza, è una separazione in casa in cui si rinuncia comunque alla libertà, alla leggerezza, agli spazi personali e si vive sapendo che prima o poi l’uno o l’altro se ne dovrà andare. Che andrà presa una decisione drastica. E che questi discorsi li faccia quel Fontana che è responsabile dello sfacelo di prima e di quello di adesso, che li faccia con questa nuova tecnica di comunicazione – ovvero mettendo Gallera in un angolo perché pensa che sia solo il buscia fesso a evocare i disastri di marzo – beh, fa parecchio ridere.
L’abbiamo già visto ad Alzano quanto ha funzionato il compromesso salute/economia in presenza di un focolaio. E magari si risparmi di invitare Conte a chiedere scusa ai lombardi o di parlare di “schiaffo in faccia”. Noi le sue scuse le stiamo ancora aspettando. E lo schiaffo in faccia, inutile dirlo, ce lo stiamo curando da soli. Ci fidiamo più del ghiaccio in frigo che della sanità lombarda.
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