Quasi 3mila detenute e detenuti italiani sono in sciopero della fame. Protestano perché si ammalano di Covid in carcere, perché il sovraffollamento è un problema antico ma soprattutto durante questa pandemia non può continuare ad essere ignorato, perché da marzo non hanno diritto a contatti con l’esterno e non ne avranno nemmeno durante le festività.
Tra le storie del Natale 2020, il Natale “sospeso” in cui per la prima volta si dovrà rinunciare ai grandi pranzi di famiglia, ce ne sono alcune che passano del tutto inosservate. Nonostante i termini più abusati per descrivere questa nostra socialità limitata imposta dal Coronavirus peschino a piene mani dal vocabolario carcerario (zone rosse descritte come prigioni, la chiusura delle piste da sci vissuta come una condanna, richiami continui e spesso scomposti all’assenza di libertà), la questione carceri non riesce a sfondare nemmeno stavolta il muro dell’indifferenza.
Eppure potrebbe essere un’occasione, per gli italiani, per sentirsi vicini, come mai prima, alla condizione di chi sconta una pena detentiva in una delle nostre prigioni. Prigioni nelle quali è impossibile rispettare le distanze di sicurezza e che per questo sono diventate “un focolaio spaventoso” del quale però nessuno vuole occuparsi.
Da 24 giorni Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale e presidente di Nessuno tocchi Caino, è in sciopero della fame per chiedere a Governo e Parlamento di ridurre drasticamente il numero di detenuti. Da ieri, giovedì 3 dicembre, si è unita al digiuno di proposta anche la Camera Penale di Milano che ha lanciato l’ennesimo allarme: con 900 condannati e quasi 1.000 agenti positivi, “il virus non è solo entrato in carcere ma si sta diffondendo in modo impressionante”.
Raggiunta al telefono, Bernardini spiega a TPI che la battaglia prosegue e che il dato più interessante è che stanno arrivando molte adesioni dalle stesse carceri: “Ad oggi siamo già arrivati a 2.812 detenuti che fanno lo sciopero della fame come me”.
La mobilitazione cresce dietro le sbarre e almeno in parte anche in Parlamento, ma non abbastanza: se dal ministero della Giustizia non arrivano novità, al Senato si discutono i decreti Ristori in cui, tra le altre cose, sono stati inseriti alcuni interventi per alleggerire il peso del Covid in cella. Potrebbe essere almeno un buon inizio, ma di questo passo i tempi di conversione rischiano di essere troppo lunghi.
In attesa, comunque, che la politica batta un colpo, decine di famiglie vivono un doppio dramma, sottoposte come sono ad un doppio vincolo: l’impossibilità di poter trascorrere le feste natalizie con i propri cari si somma all’impossibilità di poterli incontrare con la quale fanno i conti fin dall’inizio della pandemia.
Alla loro prigione dorata – “tutto sommato noi siamo stati a casa, sdraiati sui nostri divani” – si somma la ben più concreta mancanza di libertà dei loro parenti. “Mio figlio – racconta ad esempio Irene – è in carcere a Bollate, io vivo in Toscana. I colloqui per via del Covid sono sospesi da mesi e adesso con il nuovo Dpcm non ci sarà possibile neanche andare a Milano a trovarlo per Natale, come abbiamo fatto tutti gli anni”.
“So che questo non riguarda solo i genitori dei carcerati – prosegue – riguarda anche tutti gli altri, ma ci sono delle differenze tra la famiglia di una persona libera e quella di una persona detenuta: in questo momento un figlio ha ancora la possibilità di tornare a casa, se si muove prima del 20 dicembre, mentre una persona sottoposta a detenzione non lo può fare, deve chiedere comunque l’autorizzazione ad un magistrato, che non arriverà. Per noi è molto più difficile anche perché tutti gli altri, sino ad ora, si sono potuti vedere. Noi no”.
Irene ha visto l’ultima volta Matteo, 28 anni, quest’estate. Nel suo caso si sono potuti riabbracciare, dopo la prima ondata, fuori dal carcere perché il ragazzo è un cosiddetto Articolo 21: “ha dei permessi – spiega la madre -, può uscire per andare a lavoro. Però Natale è Natale – si sfoga – non c’è possibilità di andarlo a trovare, nessuna, e questa è una cosa ingiusta perché come sempre non vengono tenuti in considerazione quelli che sono gli affetti di una persona già privata della libertà. Loro sono persone private della libertà perchè hanno commesso un reato però la pena non dovrebbe essere vendicativa”.
Irene Sisi non parla solo a nome proprio ma anche di tanti tanti genitori e a nome dell’associazione Amicainoabele che ha creato assieme a Claudia Francardi, ovvero la vedova della persona che suo figlio ha ucciso: “Facciamo dei percorsi con i detenuti, andiamo nelle scuole, ci occupiamo di mediazione penale tra autore di reato e vittime. Non sono una che dice ‘il cocco di mamma’, no. Però l’affettività è un diritto per tutti e a maggior ragione per un detenuto, rientra nei piani e nei principi rieducativi del carcere, perché il fine ultimo di una pena è quello della rieducazione: non si possono abbandonare così i carcerati, anche perché noi familiari più di tanto non possiamo fare, per non rischiare di mettere in pericolo i nostri cari che stanno dentro”.
Evidentemente siamo tutti chiamati a compiere dei sacrifici in questo momento storico così complicato, ma alcuni sacrifici sono più grandi di altri e, se non si riesce a ristabilire un equilibrio tra l’essenziale e il superfluo, finisce che il diritto all’affettività può essere barattato, al mercato nero del nostro infantilismo, con il diritto alla settimana bianca.
In questo modo la necessità che lo Stato si faccia carico delle solitudini di chi è ai margini e non ha sufficienti mezzi si perde, viene inghiottita dal bisogno di ricchi quarantenni o ragazzini viziati o imprenditori senza scrupoli di continuare a divertirsi, oppure a guadagnare, come se niente fosse, a casa con altre trenta persone o in discoteca.
“Mio figlio vive questa situazione molto male – conclude Irene – perché è da tanto che non ci vede ed è anche molto preoccupato per la nonna anziana. Senza contare che l’aria in carcere è tesa, irrespirabile, i detenuti gridano a gran voce che moriranno lì dentro come topi in trappola, perché ci sono detenuti che hanno malattie pregresse, che sono più esposti al Covid, e comunque tutti in un modo o nell’altro sono particolarmente fragili. Ma sono delle persone e lo Stato non si può girare dall’altra parte”.
Anche se per il momento, spesso con la complicità di un’opinione pubblica poco attenta al tema o peggio giudicante, in maniera oltremodo distaccata e severa, il Governo non è ancora stato in grado di offrire soluzioni o almeno delle risposte.
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