Per due giorni non ha preso sonno, Rayem. Continuava a piangere, non la smetteva più. Piangeva e chiedeva: “Perché? Cosa ho fatto di male, papà?”.
Quello che ha fatto di “male”, Rayem, figlio di genitori marocchini, è stato ciò che fa ogni bimbo di tre anni, di qualunque colore o nazionalità, ad ogni latitudine: avvicinarsi a un altro bambino come lui, a una neonata in culla, per curiosità, per giocare, per confrontarsi col mondo che lo circonda.
Quello che ho visto fare a mio figlio ogni singolo giorno da quando, un anno e mezzo fa, sono diventato padre. Solo che non siamo più in un Paese normale da tanto tempo. Siamo in Italia, dove accade che un omuncolo, un criminale (scusate, non riesco proprio a chiamarlo papà) per quel meraviglioso gesto di apertura ti prenda a calci. A calci, avete capito. A tre anni.
Ti faccia fare un salto di due metri, prima di accasciarti a terra. In pieno giorno, nella via centrale di Cosenza. I lividi e le contusioni passeranno, prima o poi. Ma le ferite psicologiche, quelle non basteranno anni per ricucirle.
Per un attimo ho provato a mettermi nei panni di Bouazza, il papà di Rayem. Come glielo fai a spiegare a un bambino di tre anni che non è stato preso a calci per il suo gesto ma per il colore della pelle che porta?
Come glielo racconti che nel 1995, quando Bouazza è arrivato qui, l’Italia era un luogo pieno di limiti e contraddizioni, ma non era un Paese razzista?
Eppure quando leggo la storia di questi due bambini, le vittime che vedo sono due: Rayem, certo. Ma forse prima ancora, quella neonata in culla che con questo razzismo, con questo vuoto culturale dovrà crescere, conviverci.
Se avessi qui davanti Rayem, lo stringerei forte per fargli sapere che quelli che hanno sbagliato siamo noi, noi adulti, incapaci di lasciargli in eredità una società appena decente da permettere a due bambini di potersi ancora guardare negli occhi, toccare e cercare senza avere paura.
Il suo diritto è quello di essere e comportarsi solo come un bambino. Il nostro dovere è ripulire tutto questo schifo, fosse anche l’ultima cosa che faremo.
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