Ecco perché paragonare la pandemia ad una guerra è sbagliato
Non siamo in guerra. È certo, chiaro e lampante. Quella che viviamo è una pandemia importante, drammatica, che sta lasciando intere famiglie avvolte nel dolore. Ma il virus Covid-19 non è un esercito invisibile, è il prodotto di uno spillover, non è la conseguenza di popoli che si muovono guerra per un fazzoletto territoriale o per una supremazia economica. Non ci manca l’acqua corrente: la maggior parte di noi è in casa con Wi-Fi, televisioni, telefoni e una connessione internet per comunicare con i nostri cari, con l’esterno, con gli altri.
Nella storia dell’umanità carestie, guerre ed epidemie sono andato di pari passo, in modo alle volte complementare e sinergico: fu così per la “spagnola” durante la Prima Guerra mondiale e fu così nei secoli indietro, quando enormi eserciti si muovevano con lunghissime carovane ed infettavano città e villaggi che incontravano sul loro cammino.
La storia delle epidemie è la storia della nostra umanità, del modo in cui scarsità di igiene, abitudini errate, deforestazione, cambiamento degli assetti sociali hanno giocato un ruolo decisivo e i governi, di ogni epoca e forma, hanno ripetuto sempre gli stessi errori. Prima minimizzando e poi contando i morti e correndo al riparo con soluzioni di contenimento. Questo accade perché è più facile vincere una guerra o perderla che controllare l’efficienza sanitaria di uno Stato e l’accesso al diritto alla salute dei suoi cittadini.
La retorica della guerra è un modo per fuggire dalle responsabilità vere di una classe politica che da decenni fa dei diritti sociali materia di bilancio. Tagliare la sanità e i costi di spesa e scegliere strade private è senza dubbio legittimo e gli italiani hanno votato maggioranze che non hanno mai garantito i livelli assistenziali innescati dal welfare post bellico del nostro Paese ma hanno cercato di nascondere tutto questo.
Eppure, per combattere questa crisi sanitaria non servono soldati o eserciti pronti a morire, ma medici e infermieri capaci, coordinati da professionisti e dirigenti ancor più capaci e non da colonnelli che li osservano morire, comodi nella loro seconda fila: se la guerra arriva all’improvviso, l’unico modo per reagire è difendersi. Se una pandemia arriva (all’improvviso?), ci sono diversi modi per reagire: uno su tutti, rispondere con codici, schemi e comportamenti già prestabiliti, fissati, regolamentati.
Ma il framing della guerra è congeniale, ovviamente: permette di costruire un’identità condivisa, di compattarci tra noi, stringendoci a coorte con tricolori appesi alle finestre, inni nazionali e canti nazionalpopolari dai balconi. Uniti contro una minaccia che viene dall’esterno, costruiamo un noi contro “l’altro”, con un nemico che ci minaccia.
Inoltre, la guerra vuole i colonnelli, e infatti non manca la retorica del comandante in capo: questa scuote quotidianamente la nazione, alimentata dalla fame di informazioni e dall’utilizzo continuo di conferenze, interviste, ospitate tv, occasioni mediatiche per affermare personalismi e protagonismi che, in fondo, funzionano: il 30% degli italiani dichiara di aver migliorato la propria opinione su Giuseppe Conte (dati TP per Coffee Break), e il 71% degli italiani ha fiducia in lui.
Sembra un meccanismo contorto, ma è in realtà quanto vediamo accadere ogni giorno nel dibattito politico, e questo periodo non fa in fondo eccezione.
Sui social anche intellettuali nostrani si sono lanciati in paragoni fuorvianti, in cui addirittura si è paragonata la quarantena nostrana alla clandestinità di Anna Frank. È bene ricordare che nessuno ci bombarda, nessun Paese è nostro nemico, nessuno di noi verrà mandato a morire per il proprio credo religioso, per il colore della pelle o per la fede politica. La retorica della guerra ci rende solo tutto questo più accettabile, più digeribile: ne parleremo ai nostri nipoti, anche noi con una storia di vittoria da raccontare e un nemico debellato. Come i nostri nonni, avremo anche noi le nostre storie di guerra da poter tramandare.
Polarizzazione, personalizzazione, de-responsabilizzazione: così la guerra fa capolino nelle dichiarazioni dei politici nostrani e nei discorsi dei leader di tutto il mondo: è evidente che il concetto di guerra piace ai maschi da Macron ad Edi Rama, passando per Johnson e Trump senza differenza alcune, simbolo che una gestione della crisi prettamente patriarcale ha rischi enormi. Il primo lo abbiamo già visto: in guerra gli uomini difficilmente ammettono i propri errori e ogni errore porta morti. Inoltre, in guerra il ruolo della donna è relegato ad angelo del focolare o di un reparto di terapia intensiva.
In una pandemia, invece, le donne sono medici, infermiere, smart worker, studiose, falegnami, ricercatrici, professoresse, professioniste, scienziate: e in virtù del loro lavoro e del loro impegno cercano di trovare strade possibili per gestire questa emergenza. Il frame della guerra non ammette deroghe al machismo: ma un’eccezione, ed è – curiosamente – in una nazione governata da donne. Anzi la nazione: la Germania, dove Angela Merkel nel suo discorso alla nazione ha invertito il frame dichiarando che “dalla seconda guerra mondiale ad oggi non c’è stata nessun’altra sfida nei confronti del nostro Paese nella quale tutto sia dipeso così tanto dalla nostra azione solidale”. Quindi per la Cancelliera tedesca giustamente una pandemia estremamente mortale è più grave di una guerra perché i fattori di rischio sono diversi e più imprevedibili.
Impariamo da questa pandemia a ridare il giusto senso alle parole anche quando la normalità sarà tornata, magari così eviteremo di usare nei confronti dei malati terminali espressioni come “ha perso la sua ultima battaglia”, “il tumore lo ha sconfitto” o ancora “ha lottato fino all’ultimo come un guerriero”. Magari forse riusciremo a raccontare che un malato è una persona che cerca di vivere al meglio facendo quello che è giusto fare: provare a rimanere il tempo voluto con le persone che ama. Perché amore e guerra sono andati d’accordo solo in certi film americani.
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