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    Coronavirus: calano i contagi e i morti, ma aumentano i poveri (di M. Romano)

    Ciò che preoccupa di più è la mortalità. Quella che siamo abituati a sentire nei bollettini della Protezione Civile, sì, ma anche quella delle imprese. Quella che sta dilaniando il tessuto sociale del nostro Paese creando milioni di nuovi poveri. Quella che, se non presa per tempo, soccorsa e curata, può portare alla paralisi di un intero sistema

    Di Massimo Romano
    Pubblicato il 18 Apr. 2020 alle 11:28

    Coronavirus: calano i contagi e i morti, ma aumentano i poveri

    Per un mese e mezzo ogni giorno, alle 18.00, la Protezione Civile ha sviscerato dati e numeri sull’andamento del nostro nemico numero uno: il Covid-19. Finalmente hanno smesso. Non perché la battaglia sia vinta, ma perché hanno capito che il danno, in termini di ansia e confusione generata, era certamente maggiore dell’informazione dal fronte sanitario. Che comunque inizia a cambiare segno. Calano i contagi, scende il numero dei decessi e sale quello dei dimessi. La curva del contagio promette bene e si avvia verso la stabilizzazione che tutti speriamo. Ma non si può mettere in secondo piano un’altra curva, che cresce inesorabilmente e che è destinata a cambiare l’assetto sociale del nostro Paese. La curva della povertà.

    Calano i morti per Coronavirus, ma aumentano i poveri

    Sono circa 21 milioni le persone che stanno vivendo questo momento di emergenza con serie difficoltà economiche. Di queste, circa 10 milioni vivono con un reddito quasi nullo. I dati raccolti dall’Università della Tuscia sono disarmanti. Almeno 3 milioni di persone non dichiarano reddito al fisco e difficilmente potranno guadagnare un minimo per il sostentamento. Circa 18 milioni di persone hanno redditi inferiori a 15 mila euro e 7,6 milioni vivono con meno di 6 mila euro, 500 euro lordi mensili.

    Il blocco, seppur temporaneo, delle attività produttive per l’emergenza Coronavirus ha visto venir meno per 3,7 milioni di lavoratori l’unica fonte di reddito familiare. E a pagare il prezzo più alto, secondo la Fondazione studi dei consulenti del lavoro, sono le coppie con figli (37 per cento) e i genitori single (12 per cento).

    A morire di più, sono le imprese

    Ogni anno, Unioncamere misura il tasso di imprenditorialità del paese attraverso il saldo tra iscrizioni e cessazioni al registro delle camere di commercio. In sostanza si calcola quante aziende chiudono in Italia ogni anno. I dati comunicati questo venerdì sono allarmanti e devastanti.

    Trentamila imprese in meno nei primi tre mesi del 2020, contro un calo di 21mila nello stesso trimestre del 2019. Un bilancio che risente inevitabilmente delle restrizioni seguite all’emergenza Covid-19 e che rappresenta il saldo peggiore degli ultimi 7 anni

    Tra gennaio e marzo si registrano 96.629 nuove aperture (il dato più basso degli ultimi 10 ani), a fronte di 114.410 dello stesso trimestre dell’anno precedente, e 126.912 chiusure contro le 136.069 del 2019. In parole “povere”, ogni giorno l’Italia ha perso 337 aziende. Numeri preoccupanti, alimentati soprattutto da un’emorragia delle piccole imprese artigiane.

    Un danno globale che in Europa ci paralizza

    Se questi dati sembrano preoccupanti, le previsioni sono ancora peggiori. I dati comunicati mostrano solo il primo trimestre del 2020, ma molte aziende sentiranno la crisi nei mesi a venire. Al momento sono a rischio altre 160mila imprese e un ulteriore milione e mezzo di lavoratori.

    Un danno incredibile soprattutto se paragonato, al momento attuale, con il resto dei Paesi europei. Secondo gli ultimi dati disponibili sulla demografia aziendale l’Italia è il Paese in cui sono morte più imprese. Seguono la Spagna, il Regno Unito e poi la Germania. È ironico, ma significativo, il fatto che il tasso di nascita di nuove imprese nel nostro Paese sia più basso degli altri, l’unico sotto il 10 per cento. Abbiamo ufficialmente smesso di essere il Paese degli artigiani e degli operai che si mettono in proprio e diventano imprenditori.

    Siamo stati i primi in Europa a vivere la crisi, e gli altri Paesi hanno imparato da noi. Hanno imparato a gestire il contagio. E hanno capito che fermare l’economia può causare danni irreparabili. Chi ha potuto, ha limitato i danni e non ha optato per un blocco della produttività.

    Oltreoceano, negli Stati Uniti, dove il virus ha superato tutti i record possibili, il blocco delle attività imprenditoriali sta portando a danni ancora più devastanti. Sono già 22 milioni i nuovi disoccupati americani.

    Poche soluzioni e tanta voglia di reagire

    Le misure adottate finora sono assolutamente insufficienti. Solo 600 euro per le Partite Iva, che hanno dovuto attendere un mese per un timido sorriso. La cassa integrazione doveva essere erogata il 10 del mese. E i lavoratori aspettano. Prestiti e indebitamenti che sono bloccati da iter burocratici e amministrativi infiniti e insormontabili.

    Le associazioni di categoria insorgono. Confindustria cerca il dialogo politico per agevolare soluzioni e cercare una reazione urgente e veloce. E nascono nuove associazioni di imprenditori. Come “Azienda Italia” che, nata da pochi giorni ha già riunito oltre 400 tra imprenditori manager di piccole e medie imprese italiane e liberi professionisti, e che propone interventi immediati e concreti: la riapertura delle imprese e l’accesso immediato alla liquidità, superando i procedimenti burocratici; regole del gioco chiare e uguali per tutti legate alla riapertura immediata; liquidità garantita dal sistema bancario che sia di rapida erogazione.

    Richieste assurde? Gli imprenditori svizzeri hanno ricevuto sussidi compilando un modulo in 10 minuti. In Germania hanno ottenuto 5mila euro in 3 giorni. A Londra, le piccole attività hanno ricevuto 25mila pound a fondo perduto, i dipendenti vengono pagati dal Governo per 12 settimane e il pagamento dell’IVA è stato ritardato di un anno. Un anno…

    Molte imprese stanno reagendo. Se c’è una cosa che sanno fare i piccoli imprenditori italiani è rialzarsi e trovare il modo di ripartire. Nonostante siano stati lasciati soli fin troppo spesso.

    Ciò che preoccupa di più è la mortalità. Quella che siamo abituati a sentire nei bollettini delle 18:00 della Protezione Civile, sì, ma anche quella delle imprese. Quella che sta dilaniando il tessuto sociale del nostro Paese creando milioni di nuovi poveri. Quella che, se non presa per tempo, soccorsa e curata, può portare alla paralisi di un intero sistema.

    Certi articoli non si vorrebbero mai scrivere, leggere e pubblicare. Perché quando muore un’impresa si spengono i sogni delle persone. E quando le persone non hanno sogni e non hanno soldi per arrivare a fine mese, si spegne un Paese.

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