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    Bergamo, quelle bare di chiunque che dovranno essere i funerali di tutti

    Di Luca Telese
    Pubblicato il 20 Mar. 2020 alle 17:22 Aggiornato il 20 Mar. 2020 alle 18:22

    Passiamo dalle bare di Bergamo al corteo funebre in grigioverde, il primo della nostra storia repubblicana. Ancora una volta dobbiamo osservare le immagini della catastrofe che abbiamo davanti agli occhi con un supplemento di lucidità, cercando di andare oltre le apparenze e oltre le emozioni più immediate che ci ispirano.  Il corteo delle bare sui camion militari è stato raccontato da tutti nella sua immediata e terribile ferocia, nella dimensione di lutto incontenibile che ci comunica a prima vista. Ma quel rito sommario implica delle conseguenze molto più profonde e drastiche per il nostro sistema civile: si tratta di una enorme cremazione di massa, che si svolge – di fatto – in forma anonima. Non perché siano confuse le identità (non siamo ancora alle fosse comuni, per fortuna), ma perché nulla distingue più una incinerazione dall’altra. Nessuno accompagna l’ultimo viaggio.

    È, di fatto, la fine di ogni rapporto tra la società civile e i suoi corpi. E forse dovremmo considerare “eroi” anche i tantissimi lavoratori delle pompe funebri che si sono infettati solo per comporre quelle salme, in una forma accettabile, prima di sigillare e saldare le paratie di zinco dei feretri. Un bel paradosso: quello di chi rischia la vita per dare ordine alla morte. Ma torno al punto: siamo tutti uguali, dunque, e tutti anonimi in quelle bare. Anche questo effetto azzera duecento anni di storia con una sola immagine, anche questo esito cancella un pezzo del contratto sociale che il mondo civile ha firmato a Saint Cloud nel 1804 grazie al più importante editto sociale dell’età napoleonica. Fino a Saint Cloud le morti e le sepolture erano private. Dopo di allora divennero un monopolio pubblico della società moderna. Ora si ritorna alla casella di partenza.

    Adesso guardate il corteo funebre in grigioverde, e provate a immaginare come funziona la nuova catena del lutto. Ipotizzare di essere un parente che ha portato un padre o un parente al pronto soccorso, magari solo 24 o 48 ore fa. Da allora questo familiare non lo avete potuto più vedere, non ci avete potuto parlare, nemmeno al telefonino perché il malato è finito in una forma di emergenza ospedalizzata, in uno dei meandri dei nuovi gironi danteschi del tempo del Covid. Immaginate di essere voi a non aver più saputo nulla, finché non vi arriva una telefonata laconica: “Suo marito non c’è più”. Oppure: “Suo padre è stato appena cremato”. È quello che i medici sono costretti a fare, in queste ore, senza più nessuna intermediazione.

    Non sapete dove sia accaduto. Non sapete dove si trovino le ceneri di chi amate, nel momento in cui vi danno la notizia. La speranza di recuperare le ceneri è rimandata a una data che ancora nessuno conosce (speriamo il più presto possibile). Sappiamo già che il forno crematorio di Bergamo (ce n’è uno solo in città), è attivo 24 ore su 24. Ma adesso abbiamo appreso anche che tante città che si sono rese disponibili ad accettare le bare e a procedere alla cremazione: a Modena, a Brescia, a Parma, a Piacenza, a Rimini e a Varese. In tutti questi forni si bruciano i corpi che il sistema bergamasco non è più in grado di gestire. Non ci sono più funerali, non ci sono più sepolture. Solo una volta eseguita la cremazione, le ceneri saranno riportate a Bergamo, con un ciclo emergenziale di cui capiamo il motivo, ma di cui non conosciamo ancora tutti gli effetti sulle nostre vite.

    Perdere il contatto con le salme, perdere qualsiasi forma di testamento biologico (e lo dice uno che pure è favorevolissimo alla cremazione, ma che considera sacre le ultime volontà di chi ci lascia), ci porta a perdere il senso dell’individuo che ogni lapide, ogni sepolcro e ogni urna raccolgono. Oggi, per la prima volta da due secoli a questa parte, “i sepolcri” cantati da Ugo Foscolo non esistono più, neanche simbolicamente, vengono cancellati da una disposizione emergenziale. Penso ad un verso per salutare tutte quelle vite e mi viene in mente solo una strofa autoironica, irriverente e genialmente macabra di Lou Reed: “Tomorrow I’m smoke”. Domani sono fumo (la canzone di ingolfa, e non è un caso, “Cremation”). Questo oggi accade. La morte, come rito civile di una comunità è stata azzerata al rango di procedura sanitaria.

    Ecco perché – se è quando usciremo dall’epidemia – servirà un grande funerale collettivo, un grande rito pubblico per anestetizzare questa ferita non rimarginata. Serviranno grandi funerali civili di massa a Bergamo, a Milano e a Brescia. Ovunque ci siano stati i cortei delle bare in grigioverde: funerali gravi belli e imponenti, come solo quelli che abbiamo dedicato alle stragi. E non saranno le cerimonie funebri di qualcuno: saranno un enorme lutto nazionale. Riguardano tutti perché, mai come ora, la lotteria delle terapie intensive che ha segnato quei destini, ci dice che in ognuna di quelle bare ridotte in polvere, potrebbe esserci uno qualsiasi dei nostri cari, chiunque di noi. Potevano essere le bare di chiunque, dovranno essere i funerali di tutti.

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