“Andrà tutto bene” è lo slogan che ha accompagnato milioni di italiani nei mesi più complessi della pandemia di Coronavirus. Confesso che ho sempre provato un certo fastidio per questo slogan: non per la buona volontà di un’Italia che sarebbe uscita migliore dopo migliaia di morti e contagi e mesi di limitazioni, né per i lenzuoli dipinti, i video e le immagini sui social che da mesi ci accompagnano.
La ragione del personale fastidio verso la frase “andrà tutto bene” è quella sua passività implicita, come se 60 milioni di italiani dovessero limitarsi a pazientare aspettando che il Coronavirus per qualche ragione svanisca. No, il virus non svanisce da solo. Finché non esisterà un vaccino, una cura, un modo per sconfiggerlo una volta per tutte sarà tra noi, magari sottotraccia o nei momenti più difficili in modo più aggressivo, e per lasciarcelo alle spalle potrebbero volerci anni. E per fare in modo che vada tutto bene servono prima di tutto le nostre azioni.
Se vogliamo che vada tutto bene, serve prima di tutto la massima chiarezza da parte delle istituzioni e degli uomini di scienza su questo argomento. L’inattesa novità del virus ha portato a informazioni anche contrastanti, vuoi sulle modalità di contagio come sui dispositivi di protezione, ma una cosa ormai possiamo dirla: il virus sarà tra noi per anni. Anche se in questo preciso istante venisse trovato un vaccino completo ed affidabile, per la sua produzione e distribuzione su scala globale non ci vorranno pochi giorni, e fino a quel momento dovremo continuare con le nostre azioni a contenere quanto più possibile la pandemia. Quindi non “andrà tutto bene” con il solo scorrimento del tempo: dobbiamo essere noi a fare in modo che vada tutto bene.
Questo messaggio deve arrivare prima di tutto dalle istituzioni. L’aumento di contagi, di vittime e di malati in terapia intensiva negli ultimi giorni mostra una diffusione capillare del virus su scala nazionale. Sembra quasi che ormai sia finito l’approccio per focolai, dove il virus sembrava qualcosa che si diffondeva anche su larga scala ma partendo dalle varie Codogno o Nembro. Oggi è un fenomeno diffuso che cresce soprattutto nelle aree metropolitane, dove la densità di popolazione è più alta e gli spostamenti della popolazione sono più frequenti. Forse è soprattutto in questi contesti che andrebbe costruita quella “nuova normalità” tanto evocata ma mai realmente implementata, che permetta alle nostre vite, ai nostri lavori di andare avanti evitando i contagi.
Durante i mesi estivi abbiamo assistito a una notevole diminuzione dei casi, ma il ritorno a pieno regime di tutte le attività lavorative e delle scuole ha scoperchiato il vaso di Pandora: milioni di italiani sono tornati a spostarsi in modo disordinato, su mezzi pubblici non sempre pronti ad affrontare l’emergenza, riempendo scuole e luoghi di lavoro non sempre attrezzati alla prevenzione del contagio. Una falsa normalità come se nulla fosse, e non una “nuova normalità” basata su nuove regole che permettessero a tutti di avere una vita normale, come se l’attesa passiva avesse fatto in modo che fosse andato tutto bene.
Si muore di Coronavirus, ma si muore anche di fame o di depressione. Prevenire il contagio è fondamentale ma bisogna garantire agli italiani la possibilità di lavorare ed evitare nuovi lockdown. Se non si creano delle regole di convivenza condivise per evitare nuovi focolai o un carico eccessivo sul nostro sistema sanitario serve creare e rispettare queste regole, con la consapevolezza che se non siamo disposti a metterle in campo e rispettarle rischieremo di alternare ciclicamente lockdown a momenti di falsa normalità, nei quali facendo finta che sia andato tutto bene come da slogan non faremo altro che tornare al punto di partenza.
Costruiamola davvero la nuova normalità. Agiamo perché essa funzioni, cittadini e istituzioni. Facciamo in modo che la vita di tutti possa proseguire nel modo più regolare possibile. Ma dobbiamo farlo noi, perché solo agendo potremo fare in modo che vada tutto bene.
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