Se c’è una cosa ridicola in questa polemica contro il presunto scandalo di Giuseppe Conte a Cortina, é il senso di insostenibile stucchevolezza dell’effetto “deja vú”. È una delle argomentazioni più antiche del cosiddetto “populismo delle élite”, infatti, quella di criticare la presunta “incoerenza” di chi “da ricco” difende i poveri.
E così, secondo questa traballante equazione, sarebbe incoerente il leader del M5S, perché dopo aver girato un video di fine anno in difesa dei poveri, contro il taglio del reddito, se ne sarebbe andato “in vacanza” in un hotel a cinque stelle, a Cortina.
Ora, a parte il fatto che chi si organizza una “vacanza da ricco” non se ne sta certo per tre giorni in un hotel. Si va a Cortina per gli inviti letterari o per i dibattiti politici (esattamente come si va in Versilia, ospiti all’Hotel Versilia senza che nessuno si scandalizzi), si va per le relazioni, per mille motivi, come in questi giorni hanno fatto in tanti, da Daniela Santanché a Enrico Mentana, a Matteo Renzi.
Ma il punto è un altro: quale sarebbe il teorico “conflitto di interessi” tra difendere i diritti dei poveri e stare due giorni a Cortina? E – più in generale – fra l’essere “ricco” (o “benestante”) e difendere i ceti popolari? La cosiddetta “scelta di vita” ha portato, in Italia (e in tutto il mondo), moltissimi dirigenti che venivano da famiglie aristocratiche o ricche a militare nelle fila della sinistra, o addirittura in quelle dei partiti comunisti e socialisti del Novecento.
E nemmeno negli anni Trenta l’argomentazione accusativa del “ricco incoerente perché difende i poveri” aveva il benché minimo fondamento. Anche perché fin dall’inizio della loro storia, tutti i diversissimi partiti del movimento operaio, capivano che chi si schierava con gli ultimi venendo da una biografia di privilegio aveva tutto da perdere e nulla da guadagnare, a cominciare dall’odio di classe del ceto che tradivano, per una nuova solidarietà di classe scelta in nome dell’uguaglianza.
“L’incoerenza presunta” di un grande borghese, dunque, è la scelta di abbandonare la sua classe per difenderne un’altra in nome dei valori di equità, o il contrario? La scelta di opportunità è schierarsi da una parte per guadagnarci, e non certo il contrario.
Tuttavia va detto che questo attacco “da destra” a chi venendo dal benessere sceglieva la sinistra ha radici antichissime: tanto per restare nella storia del comunismo mondiale era molto ricco e benestante Friedrich Engels, erede di una dinastia di industriali tessili, che in nome della sua scelta di classe, non solo portò la ricchezza di intere generazioni a finanziare la prima internazionale (altro che “tradimento” dei poveri) e che poi finanziò per tutta la vita l’amico Karl Marx, consentendogli in questo modo di dedicarsi alla teoria e alla politica.
Ovviamente i conservatori del secondo ottocento per anni diedero del “mantenuto” a Marx e dell’”incoerente” ad Engels, senza trovare – tuttavia – nessun ascolto nei militanti più proletari, che invece erano grati ai loro padri putativi per il loro impegno disinteressato.
Anche in Italia la polemica ha avuto bersagli eccellenti. Se Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti erano entrambi di estrazione piccolo borghese, molti erano i figli del privilegio che abbracciarono il comunismo. Era nipote di Giovanni Giolitti Antonio, che fu ministro delle riforme nel governo di centrosinistra.
Erano figli di grandi famiglie borghesi sia Giorgio Amendola che Giorgio Napolitano, i due grandi leader riformisti del Pci. E il padre di Amendola, Giovanni, aveva l’orologio d’oro nel panciotto, e una rendita importante, era stato ministro delle Colonie, ma da antifascista – raccontò Giorgio – regalò a suo figlio un bastone di nerbo di bue dicendo al figlio: “Tieni! Ti ho educato al rifiuto della violenza, ma ci sono tempi in cui bisogna difendersi!”. Da dirigente del Pci clandestino, Amendola visse e divise letto e pane con tantissimi militanti di estrazione operaia. Perché “la scelta di vita” era un atto di condivisione totale.
Era figlio di un grandissimo industriale dell’auto Sergio Garavini (“Nelle Garavini si deve entrare con la tuba in testa!”, amava ripetere suo padre, Eusebio, che doveva la sua fortuna alle carrozzerie di lusso), e che fu il primo segretario di Rifondazione Comunista. Garavini da ragazzo aderì al Pci e alla Cgil. Altro che scelta facile, il padre – che era tra i notabili della Confindustria piemontese – cambiò il suo testamento e gli comunicò: “Sei stato diseredato”.
Ed era ricco anche il padre di Marisa Cinciari Rodano (la moglie di Franco il teorico del compromesso storico) perché era stato un importantissimo armatore di Civitavecchia (e sotto il fascismo un gerarca). Marisa ereditò un castello dove aveva dormito Napoleone a Monterado, nelle Marche, e cedette la gestione degli amplissimi poderi della tenuta ai suoi mezzadri.
Era figlio di una grande famiglia borghese (sia da parte di madre che di padre) anche Enrico Berlinguer, che fu oggetto di una grottesca campagna denigratoria sulla sua presunta “ricchezza”, innescata a metà degli anni settanta dal settimanale di destra “Il Candido”.
La punta di lancia di questa campagna era la proprietà di “un’intera isola in Sardegna”. La proprietà in questione – l’isola Piana – era poco più di uno scoglio collocata a metà strada fra Stintino e l’Asinara, che aveva (e ha) un unico edificio sul suo territorio: una antica torre Saracena.
L’isolotto, tuttavia, era appetibile, e desiderato da parte di un ricco vero – Aga Khan – che offrì ai due fratelli Berlinguer un miliardo di lire (degli anni settanta!) per comprare l’isola e costruirci un villaggio turistico esclusivo. La risposta di Berlinguer, quando il Pci vinse nel comune di Stintino e di Porto Torres (dopo la grande avanzata delle amministrative del 1975) fu quella di chiedere alla neonata giunta di sinistra trasformare quell’isola in un pezzo del nascituro Parco Naturale dell’Asinara, vincolandola, e rendendola (come è oggi) del tutto inedificabile.
Ma questa vicenda, lunga e paradossale (“Berlinguer ricco”, “Berlinguer proprietario di un’isola tutta sua”) ebbe due sottofinali, uno grottesco e uno inquietante. Il primo fu che giornalisti e fotografi, nel pieno della polemica, sbarcarono in Sardegna per documentare “le proprietà di Berlinguer” ma sbagliarono isola Piana: visto che di isola con quel nome ce ne sono due, una al nord (quella dei Berlinguer) e una al Sud (vicino a Carloforte, nell’arcipelago del Sulcis).
La seconda scoperta, che rivelò i retroscena di quella campagna, venne dal dossier Mitrokhin, quando venne alla luce che i documenti contro Berlinguer venivano addirittura dal KGB (desideroso di screditare uno dei leader comunisti più critico con Mosca al mondo).
In tempi più recenti, la ricca Moratti provó ad attaccare il suo avversario nella campagna a sindaco di Milano Giuliano Pisapia (grande avvocato, con un reddito depositato in Parlamento da tre milioni di euro) sostenendo che da ragazzo avesse rubato una macchina (accusa che si rivelò del tutto infondata).
E quasi di default, oggi, si prova ad usare queste argomentazioni da “pauperismo delle élite” contro Conte. Il quale si ritrova da buon ultimo (e in buona compagnia) oggetto di attacchi che sembrano la stanca rifrittura di argomentazioni molto usurate negli ultimi due secoli: Conte nell’ultima dichiarazione dei redditi ha reso pubblica una busta paga inferiore a quella di un deputato (quella da ex premier da 80 mila euro), ma nel 2019 dichiarava un milione e 155mila euro (che derivavano dal suo lavoro di avvocato amministrativista).
È vero che da quando fa politica il reddito del leader M5s è drasticamente calato, ma é davvero difficile sostenere che non abbia il diritto (o la possibilità) di pagarsi due notti in un albergo a cinque stelle, con dei soldi che ha guadagnato lavorando. E pagandoci sopra – per di più – il 50% di tasse. Il peccato irrimediabile per la sinistra – non è l’esser ricco, ma piuttosto non evadere, o vivere di rendita.