Comunismo e nazismo non sono uguali: lo dice la storia
Come il Pd abbia potuto votare una mozione che equipara il nazi-fascismo e il comunismo è uno di quei misteri di fede che meritano di essere approfonditi. Si capisce bene la posizione della destra, che sogna di poter imporre questa fantasiosa equazione da mezzo secolo. E si capisce il voto dei poveracci, degli immemori, di chi non c’era o di chi non hai mai aperto un libro, di qualche sempliciotto demente che cerca luce o gloria. Tuttavia la storia del Novecento, piaccia o meno, è un’altra, e certo non potrà essere riscritta da qualche piccolo apprendista revisionista momentaneamente coinvolto in una gita scolastica a Bruxelles o a Strasburgo.
A Yalta nella foto ricordo della conferenza dei vincitori che nel 1945 hanno salvato il mondo c’erano raffigurati tre signori sorridenti e granitici. Uno si chiamava Winston Churchill, e fumava il sigaro, l’altro si chiamava Franklin Delano Roosveelt, ed ed era in sedie a rotelle, il terzo si chiamava Iosif Dugasvili in arte Stalin, aveva i baffi folti, era già noto al mondo per aver mandato a morte (anche) i suoi compagni, ma era il rappresentante del popolo che aveva pagato il prezzo più alto per la Liberazione, venti milioni di cadaveri, fra l’altro mal contati sulla strada fra Berlino e Mosca.
È storia, non opinione, che a liberare Auschwitz non è arrivato il carro armato americano buonista del politicamente corretto Roberto Benigni (altrimenti ti saluto Oscar). E sarebbe molto bello dire che “ci hanno salvato gli americani”. Ma a Berlino ci sono arrivati i russi, non il generale Patton, e la prima bandiera che ha sventolato sul Reichstag, è stata rossa, e non a stelle e strisce. La immortalò il tenente Yevgeny Khaldei, un giornalista dell’Armata Rossa e la foto fu rifatta tre volte, perché non piaceva a Stalin, e poi per giunta annerita, perché sullo sfondo c’era un soldato dell’Armata rossa con tre orologi al polso che aveva rubato ai cadaveri dei soldati tedeschi, e persino in quei tempi feroci si pensò che non fosse un gesto carino.
Morirono ragazzini di tredici anni decorati dalla mummia di Hitler poche ore prima, per difendere la città perduta, e Berlino era ridotta un cumulo di macerie, ma si sparava casa per casa. Londra era stata bombardata metro per metro e non era caduta, anche grazie al signore con il sigaro e al suo proclama su “lacrime e sangue” (che non era uno spot di qualche sapone).
Charles De Gaulle salvò quel che restava dell’Armata francese, e lanciò un proclama che ancora oggi, riletto mette i brividi. Ma i soldati francesi sarebbero morti tutti sulla sabbia di Dunquerque, per una scelta di triage fatta dagli ufficiali inglesi loro alleati, se una grande mobilitazione di popolo non fosse riuscita a raccogliere ogni uomo salvabile con ogni battello disponibile in Inghilterra. Civili come formiche, contro l’aviazione nazista, ma incuranti di ogni rischio, perché la scelta era libertà o morte.
L’America infatti mandò a morire mezzo milione di ragazzi in Europa, contro il parere di Kennedy padre, che ammirava molto il Reich e si commuoveva per le coreografie con la svastica: molti di quei ragazzi, però non toccarono nemmeno la spiaggia della Normandia. Morirono falciati come mosche, mentre provavano a sbarcare, il soldato Ryan fu un caso anomalo.
Si pensa che equiparare nazismo e comunismo, parlando del Secolo Novecento possa essere una efficace opinione di parte, uno schiaffo che colpisce l’Unione Sovietica. In realtà, questa equazione sghemba, offende prima di tutto il britannico con il sigaro e l’Americano con la sedia a rotelle, e i loro popoli. Insulta la memoria di Yalta, che è stata molto più di una conferenza di pace, il primo grande accordo di non belligeranza della storia umana.
Capisco i deputati di destra, che segnano un punto sulla lavagnetta dei loro aggregatori di consenso, e pregustano qualche tweet di propaganda. Mi fanno pena i poveretti eletti con il gruppo dei Socialisti Europei e affini, che per sembrare buoni e carini si sono dimenticati chi erano i buoni e i cattivi. Chi era per l’Olocausto, senza smettere di far lavorare la macchina di morte anche a costo di abbandonare i rifornimenti del proprio esercito a Stalingrado, e chi invece i cancelli dei lager li ha aperti.
Un giovane ufficiale italiano degli alpini, che si chiamava Nuto Revelli, partí con il corpo di spedizione mandato a morire da Benito Mussolini in Russia. Partí fasciatissimo (come tanti di quei ragazzi cresciuti nel ventennio) e a metà del viaggio già voleva disertare annotando sul suo diario: “Di chi siamo alleati?”. Aveva visto i bambini ebrei deportati nelle stazioni, le Ss sorridenti al lavoro. Avrebbe visto, di lì a poco, le isbe bruciate, i partigiani russi crocifissi e bruciati vivi perché non rivelavano le informazioni ai loro torturatori.
Nuto salvò la pelle, per miracolo, tornò con gli altri superstiti camminando a piedi per mille chilometri, e non si dimenticò mai delle scarpe di cartone con cui era equipaggiato e delle pezze che si dovette mettere ai piedi per non morire congelato. Non dimenticò mai, durante la ritirata, dei nazisti che scattavano le foto a loro e ridevano, e delle madri russe che piangevano per questi italiani laceri, perché pensavano ai loro figli uccisi dai tedeschi.
Revelli era un ragazzo nato esattamente cento anni fa, non era comunista, anzi, ma tornato scrisse un inno – “Pietà l’è morta” – e andò a combattere da azionista con la brigata Roselli sulle montagne del Piemonte, arrivando a inseguire i tedeschi fino in Francia. Durante questa offensiva rimase sfigurato, e per tutta la sua vita fu orgoglioso delle sue cicatrici e delle operazioni che dovette subire per contenerla.
Dire che nazi-fascisti e comunisti erano uguali non è un insulto al comunismo, al soldato Kaldej, a quelli che a Stalingrado o a Leningrado hanno fermato Hitler mangiando topi per due anni. È una infamia contro coloro che si sono alleati ai sovietici, hanno schiacciato l’infezione nazista e ci hanno regalato settant’anni di pace, e quella terribile forma di governo che chiamiamo democrazia. La peggiore – lo diceva l’uomo con il sigaro – esclusa tutte le altre.