I quirinalisti sono tutti eccitati, Draghi ha parlato e non riescono a smettere di battere le mani. Metteteci anche lo slogan del “nonno” e Berlusconi diventato bisnonno e scoprirete che ci sono tutti gli elementi che servono per sbizzarriti sugli scenari. Madri cristiane, quello che parla da padre, ora il nonno a disposizione e l’ex cavaliere bisnonno sono pupazzetti perfetti per il presepe quirinalizio. Viva il Natale e viva la famiglia.
Si scorge anche un certa esultanza perché Draghi avrebbe dimostrato, a detta di quasi tutti i commentatori, un’intelligenza “politica” superiore ai politici nostrani fingendo di non sapere che quella che appare come superiorità sia semplicemente il risultato di una libertà politica (che è il condono di tutti i “tecnici” o “migliori”) che dura giusto il tempo in cui torna utile ai partiti. Ai partiti Draghi è stato utilissimo: ha evitato le elezioni che spaventano Salvini contro Meloni, ha evitato le elezioni che spaventano Meloni che non ha ancora ottenuto una leadership stabile nel centrodestra a cui aspira, ha evitato le elezioni che spaventano Forza Italia che non sa ancora cosa rimarrà di Berlusconi, ha evitato le elezioni che spaventano i centristi che non hanno scelto ancora da che parte stare e che non hanno il modo per fare un centro, ha evitato le elezioni che spaventano il PD che deve ancora determinare i confini della presunta area riformista, ha evitato le elezioni che spaventano il M5S affaticato nel rinnovare la propria identità, ha evitato le elezioni che spaventano a sinistra dove doveva nascere il partito che non è ancora nato. Forse dietro alla continua elegia di Draghi c’è anche un tempismo perfetto per prendere tempo.
I partiti, dicevamo. Ieri il Presidente del Consiglio li ha legati con un doppio nodo proponendosi come possibile Presidente della Repubblica inchiodando la maggioranza attuale sia nel proseguimento dell’attività di governo (con un nuovo Presidente del Consiglio, come se fosse solo una pedina obbligatorio, come se bastasse un ologramma) sia nell’elezioni del Presidente della Repubblica. Grande mossa politica, dicono quasi tutti. Per niente: c’è una considerevole differenza tra una maggioranza che sostiene un governo (che dura nella migliore delle ipotesi 5 anni) per sbrigare le contingenze e la maggioranza che elegge un Presidente con funzioni di garanzia che ha il ruolo di attraversare i governi garantendo gli equilibri democratici. Qualcuno avrebbe potuto spiegare a Draghi che i due ruoli sono costituzionalmente molto diversi, non sono due identiche opportunità di comando. Qualcuno forse avrebbe anche potuto dirgli che un’autocandidatura del genere oltre che essere piuttosto pretenziosa è anche sbagliata nei tempi: la partita per il Quirinale si gioca nei giorni appena precedenti all’elezione e anticipare la propria disponibilità può significare solo un’ingenuità politica demoralizzante o una certa megalomania. Entrambe le caratteristiche sono preoccupanti, per motivi opposti. Ha ragione Renzi che oggi in un’intervista a Repubblica spiega che non è affatto detto che la maggioranza di governo debba coincidere con quella che elegge il Presidente. È successo l’ultima volta ed è accaduto prima.
I partiti, dicevamo. I partiti muti. Il Presidente del Consiglio si presenta alla conferenza stampa di fine anno per dirci che il suo ruolo è esaurito e nemmeno un partito che si permetta l’onestà intellettuale di dire che no, la pandemia non è sconfitta (e non è certo una responsabilità di Draghi ma il suo compito era quello di accompagnarci all’uscita che per ora non si vede) e che il PNRR debba essere declinato nella realtà. A voler ben vedere non c’è nemmeno un partito che ritenga utile spiegarci cosa dovrebbe fare il governo nel prossimo anno, cosa ci sarebbe da correggere, niente di niente. Si gioca sui nomi come si gioca alle figurine. E diventa ancora più chiaro perché Draghi possa permettersi questo suo atteggiamento perfino snobistico e distaccato: la debolezza dei partiti è la sua forza e quelli lo applaudono. Finché dura.