Da lunedì la Commissione von der Leyen ha iniziato ufficialmente il suo mandato. In queste settimane si è detto spesso: dopo l’elezione di Trump, l’Europa colga l’occasione per un salto in avanti verso l’integrazione. Ora è il momento di agire, con investimenti comuni per nuove politiche a sostegno della transizione ecologica e l’innovazione digitale, la rimessa in discussione del diritto di veto, una politica estera e un nuovo modello di difesa comuni, l’autonomia energetica. Con un serio lavoro anche per nuovi modelli comuni di sicurezza sociale, a cominciare dalla casa e la sanità.
È necessario incitare le classi dirigenti verso questa direzione. Il rapporto Draghi parte proprio da questo assunto, già ben prima della vittoria di Trump. Ma a volte la sensazione è che non ci sia piena consapevolezza di quello che è accaduto in questi anni.
Evitiamo analisi slegate dalla realtà e diciamoci la verità: questo salto nel futuro verso un’Europa politica non c’è, e non per un caso, o perché non rivendicato, ma perché i nazionalismi stanno vincendo la partita nelle democrazie europee e non solo.
L’elezione di Trump casomai rischierà di rafforzare in Europa un’opzione rinunciataria e antigovernativa, perché il nuovo governo Usa offrirà ai singoli Stati e non all’Europa opportunità di relazioni bilaterali, anche in chiave anti-europea per sostenere l’opzione dell’Europa minima necessaria contro l’Europa massima possibile.
Dopo anni di pigrizia, solo a causa del Covid e a un impegno dei progressisti l’Unione Europea si è mossa per la prima volta nella storia addirittura facendo debito comune. Ma dopo questa parentesi tutto sembra tornare alla più forte opzione rinunciataria.
Questa opzione è forte di numeri impressionanti: su 27 Paesi europei, 22 sono governati da alleanze conservatrici e che sostengono modelli intergovernativi, e per la prima volta su 720 parlamentari di Strasburgo 217 sono della destra estrema e nazionalisti.
Questa situazione ripropone due temi. Da un lato, quello di riconquistare la fiducia delle persone nel modello democratico. Da dopo l’89, le democrazie europee, per tanti motivi, sotto i colpi dell’economia globale hanno avuto crescenti e strutturali difficoltà a garantire politiche di crescita e sviluppo. Questo ha prodotto drammatiche disuguaglianze, solitudini che hanno generato rabbia, sfiducia, disillusione contro ogni potere costituito.
Si è affermato quello che potremmo chiamare un “antiglobalismo individualistico contro qualcuno” che ha sostituito un “antiglobalismo solidaristico per un altro futuro”. Questo pensiero ha colpito per primo le destre storiche in Europa, sostituendole con modelli aggressivi di destra, poi le sinistre e, una volta al potere, le impalcature democratiche. Per questo occorre capire che i problemi non sono i leader della destra, ma i motivi per cui le persone li votano.
Solo ricostruendo una credibile speranza di sviluppo che metta al centro il benessere e la persona umana potranno cambiare. E solo in una dimensione europea questo è possibile. Dall’altro lato, l’Europa politica, forte e umana, e una economia continentale sono “la” dimensione della democrazia. Lo Stato nazionale non lo è più. Per questo ora partirà l’attacco all’Europa come nuovo livello di un processo in atto: il nazionalismo così forte non è un’altra idea di Europa, è la sua negazione.
Da dove ripartire dunque? La via è strettissima ma c’è, ed è rappresentata da quella maggioranza europeista che a luglio con 401 voti ha dato a Ursula Von der Leyen la maggioranza del Parlamento. È una maggioranza che è e sarà continuamente aggredita dalla destra, ma che dobbiamo difendere e rilanciare. Non sarà tutelata dalla Presidente von der Layen, che nel suo ultimo discorso di Strasburgo ha usato solo le parole “libertà” e “competitività”, cancellando la “solidarietà”. Serve coraggio a combattere.
Ho detto dei rapporti di forza della destra nel governo degli Stati, dobbiamo fare di tutto per non regalargli anche l’Europa. Bisognerà trattare su tutto, partendo dall’agenda alla quale crediamo, per arginarli e tenerli fuori sui contenuti. Senza subalternità e votando contro quando sarà necessario. Lo abbiamo già fatto: sul bilancio e su un pilastro del green deal come la direttiva sulla deforestazione, condizionato in aula da pericolosi emendamenti.
La maggioranza per farlo c’è, e sbaglia chi a sinistra se ne tiene fuori, è un peccato. Limitarsi a testimoniare delle idee nella lotta, in questo tempo, è un lusso. Un privilegio. Per molti anni l’Europa è stata in avanguardia, oggi è una trincea. Noi da parte nostra continueremo lì per non arretrare.