Giuseppe Conte correrà per la Camera, nel collegio di Roma uno, come candidato di tutto il centrosinistra? Come spesso accade con i risultati elettorali, i loro esiti producono effetti domino, a prima vista impensabili, sui tavoli più disparati. Quello apparentemente più piccolo, ma in prospettiva più importante, riguarda proprio la Capitale. Già, perché l’elezione in Campidoglio di Roberto Gualtieri, lascia libero un seggio importante di Montecitorio, proprio quello del centro storico, che potrebbe essere usato per cementare l’alleanza giallorossa con una candidatura comune del leader del M5S. Non si tratta di un fulmine a ciel sereno, perché già diverse mosse preparatorie, e diversi colloqui preliminari tra i leader, hanno predisposto questo scenario, a partire da due gesti politici che erano stati fatti da Conte senza troppo clamore: ovvero con la “desistenza” che il leader M5s aveva ordinato nei due collegi in cui si votava per le elezioni politiche in contemporanea con le amministrative (il collegio di Siena e quello di Roma Primavalle, dove gli elettori del ‘5s non avevano trovato il loro simbolo sulla scheda).
Nel primo caso, come è noto, ha stravinto Enrico Letta (scegliendo un simbolo non di partito, più largo di quello del Pd). Nel secondo collegio, nella periferia di Roma, ha prevalso il segretario cittadino del Pd, Andrea Casu (che non giocava in casa, in un quartiere- Primavalle – in cui spesso aveva prevalso la destra). Quindi il galateo politico oggi richiederebbe che questa “cambiale” venisse onorata con la candidatura di Conte, suggellando così il nuovo corso dell‘alleanza giallorossa. Anche perché Il leader M5s – sfidando non poche resistenze interne – ha fatto una dichiarazione di voto a favore dei candidati del Pd nei ballottaggi (“Non voteremo mai per i candidati della destra”), parole in cui Letta sperava e confidava (soprattutto a Roma, dove gli elettori del Movimento sono stati decisivi nel sorpasso di Michetti). Questa diplomazia è stata resa visibile anche per il fatto che – non certo casualmente – in due delle cinque principali città (Roma e Napoli) gli eletti sono ex ministri del governo Conte bis. Ma è anche vero che in queste ore Conte fa sapere in off record che lui continua il suo tour nazionale, e che per lui l’elezione in Parlamento “non è una pregiudiziale”.
Tuttavia, come sempre accade in politica, proprio in virtù di tutti questi elementi, adesso il peso simbolico di quel collegio diventerebbe molto più importante di prima del voto, perché adesso la palla è nei piedi del leader del Pd. Se Letta volesse proseguire in questa strategia di alleanza, si troverebbe di fronte l’opposizione sicura di Carlo Calenda, che proprio nella Capitale ha ottenuto il 20% dei voti per la sua lista civica, e che continua a chiudere la porta ad ogni alleanza con Conte: “Se accettassi questa logica del patto con il M5S, dopo aver detto il contrario per un anno – spiegava subito dopo il voto – sembrerei un matto a chi mi ha sostenuto”. Fra questi elettori, aggiungeva Calenda in off record, “i sondaggi mi dicono che il 15% sono elettori che mi arrivano da destra”.
Tra gli ostacoli del percorso che porta all’accordo ci sono poi le resistenze di un pezzo del Pd che considera quel collegio “suo” per forza elettorale (come è noto è in uno dei municipi in cui il partito tocca i risultati più alti) e quindi per storia elettorale (fin dal 1996, ai tempi dell’Ulivo, quello era collegio di Walter Veltroni). Qualche commentatore dell’ala più centrista della colazione, come il direttore de Linkiesta Christian Rocca, ha già ironizzato con tono sarcastico: “Ora, mi raccomando, regalate all’avvocato del populismo nonché leader fortissimo di tutti, gratuitamente, il seggio di Roma 1 lasciato libero da Gualtieri”. Un fuoco di sbarramento preventivo che dà voce a molti che oggi nel Pd vorrebbero dire la stessa cosa, ma invece per ora stanno alla finestra a vedere che succede.
Questa battuta rivela uno stato d’animo di chi non vuole quel patto. Un importante dirigente del Pd, in off record mi dice: “Allo stato attuale non c’è ancora una direttiva politica su quel collegio. Penso che molti nel Pd romano lo considerino un patrimonio del partito. I Cinque stelle a Roma uno – conclude il dirigente – hanno il 4%”. Fra l’altro, proprio in quel collegio, c’e già stata una elezione suppletiva, ed è proprio quella che portò in Parlamento Gualtieri, scelto per prendere il posto di Paolo Gentiloni, nel seggio lasciato vacante dopo la sua nomina in Europa. Inutile dire che anche in quel caso si levarono molte proteste, nel Pd romano, per la cessione di un boccone ghiotto, ad una figura di carattere nazionale. Infine c’è un’ultima motivazione, meno nota, ma non irrilevante: sia Letta (fino all’elezione di quindici giorni fa), sia Conte (attualmente) non avendo nessun mandato elettivo, hanno fatto i leader tecnicamente gratis. A chi gli chiedeva come mai non si assegnasse nessuno stipendio, il leader del Pd rispondeva con un sorriso: “Dirigo un partito che ha debiti, e dipendenti in cassa integrazione, mi sembrerebbe un gesto inelegante”. Il problema è stato risolto oggi con l’elezione. Tuttavia esisteva, proprio come accade per il leader del M5S. Sia Letta che Conte hanno avuto buoni redditi, ma il problema non è personale, ma simbolico: non l’emolumento ma l’alleanza. Quindi c’è l’ultima indiscrezione che complica il quadro, arriva da un altro dirigente: “A Roma il colpo di scena che spariglia tutto potrebbe essere una candidatura di Nicola Zingaretti, proprio in quel collegio”. Una corsa che segnerebbe il passaggio dalla politica regionale a quella nazionale, prima della scadenza canonica del fine legislatura alla Pisana.
Tutti questi temi si legano con l’ultimo dettaglio tecnico importante: Gualtieri ha settanta giorni per optare (come è ovvio) per la poltrona capitolina, rinunciando al seggio di Montecitorio. E dopo quel giorno passerà di sicuro altro tempo, prima che il ministero dell’interno possa fissare la data del voto. Questo significa che l’operazione può essere sia accelerata che ritardata, a seconda degli umori o delle difficoltà. Ecco perché capire come va a finire a Roma uno è – prima di tutto – un buon termometro per capire lo stato di salute della coalizione giallorossa. E, soprattutto, in che direzione soffia il vento che prima porta all’elezione del presidente della Repubblica e poi alle politiche.