Ricordo un’assemblea di diversi anni fa dove un docente di Filosofia, di quelli che una volta chiamavamo compagni, intervenendo nel dibattito esordì con: “Antonio Gramsci diceva che un esercito non fa un generale ma, un generale fa un esercito”. Mi è rimasta sempre impressa quella frase e oggi non trovo metafora più calzante per esprimere quello che è accaduto in questa campagna elettorale, riferendomi in particolare alle vicende tra il Pd e Conte e alla disfatta di quel campo largo annunciato per mesi quale unica via per sconfiggere la destra, e dissoltosi nel nulla dopo la caduta del governo Draghi.
Raramente nella recente storia del centrosinistra è capitato di apprezzare un tale numero di candidature di spessore politico, di forte impronta progressista, espressione di comunità legate ai diritti sociali, dal lavoro, all’ambientalismo, come quelle che sono state messe in campo dalla lista Democratici e Progressisti in questa tornata elettorale.
Da Elly Schlein a Marco Furfaro , da Giuseppe Civati ad Aboubakar Soumahoro, alla stessa Ilaria Cucchi, per la prima volta il Partito Democratico ha fatto un’operazione di apertura reale, diversa dai trucchetti stile foglia di fico a cui ci aveva abituati in passato nella scelte delle candidature sia locali sia nazionali.
La coalizione di centro-sinistra – questa volta più di sinistra che di centro – aveva un esercito riconoscibile, motivato, con una forte impronta sociale e una precisa cultura politica. È stato il generale che è mancato, o meglio non c’è stato alcuno che indicasse una strategia e una direzione vincente, o almeno non suicida, come quella a cui abbiamo consapevolmente assistito.
Lo scollamento con la realtà del Paese si è visto da subito, con le insensate parole di Letta a proposito della ormai celebre “agenda Draghi”, ed è proseguito con i siparietti tra lo stesso Letta e Calenda, per chiudersi qualche giorno dopo con l’apertura di una campagna imbarazzante dal titolo “scegli”. Contrapponendo il rosso al nero e il bene al male, una campagna in stile “Il trono di spade”, puntando a ritagliare al Pd di ruolo di “Grande inverno” contro gli “estranei” capeggiati da Giorgia Meloni. Tutto ciò ha portato a una semplificazione talmente palese da scatenare le ironie e gli sberleffi da parte di molti elettori, anche i più fedeli. Una campagna surreale che è suonata finta dal momento stesso del concepimento. Se proprio un fronte progressista doveva essere schierato contro il male, allora non si capisce perché questo fronte si sia “voluto” privare dell’alleanza con il M5S e soprattutto della punta di diamante sulla quale si era investito negli ultimi 2 anni: Giuseppe Conte.
Di contro, quest’ultimo ha centrato tutti gli obiettivi occupando uno spazio lasciato vuoto da più di un decennio e che il Pd difficilmente riuscirà a riprendersi: lo spazio del “campo progressista”. Questo nonostante dalle parti dei 5S i problemi non siano stati pochi e la campagna elettorale sia stata influenzata negativamente da alcune scelte: a differenza del Pd, a Giuseppe Conte è mancato un esercito. A parte le poche candidature di rilievo, da Roberto Scarpinato a Federico de Raho, da Stefano Patuanelli a Chiara Appendino, che l’avvocato del popolo ha fortemente voluto al suo fianco, il Movimento 5 Stelle si è presentato per l’ennesima volta senza candidature riconoscibili e spesso presentabili. É accaduto soprattutto a Nord: candidati dalla dubbia provenienza politica o del tutto privi di storia. Questo ha penalizzato un risultato che avrebbe potuto essere superiore a quello di fatto ottenuto dal Movimento.
Il passaggio sulla doppia candidatura, la decisione di scegliere i candidati con primarie online chiuse e distanti dal Paese reale hanno precluso l’ingresso della società civile nelle liste del Movimento. Ancora, la chiusura a un pezzo da 90 come Alessandro Di Battista ha fatto sì che il Movimento 5 Stelle non abbia potuto concorrere con una squadra competitiva di candidati riconoscibili.
Purtroppo, il Movimento insiste sul suo peccato originale che in questa campagna elettorale ha fatto da freno a mano, proprio quando invece sarebbe servito inserire il turbo. Questo peccato originale ha un nome e un cognome: Beppe Grillo.
Il fondatore e garante, che durante la caduta Draghi ha avuto un ruolo molto ambiguo (si ricordi la vicenda della telefonata tra Grillo e il premier in cui lo stesso Draghi gli avrebbe chiesto di eliminare Giuseppe Conte), non ha speso una parola durante la campagna elettorale e nell’unica foto con Conte è ritratto di spalle. È riuscito comunque ad incidere sulla campagna, insistendo su alcuni punti, come la regola del doppio mandato, la scelta dei candidati via web. Così ha minato alle basi la possibilità di offrire una alternativa progressista convincente al Paese, così come Conte avrebbe voluto.
Nonostante tutto però, il generale ha creato un suo esercito e non l’ha fatto con i candidati, ma con i milioni di persone che gli hanno riconosciuto la fiducia e che convintamente, dai social, alle piazze, si sono fatti promotori e candidati di un movimento che ha superato il risultato sperato, centrando l’obiettivo. Giuseppe Conte ha fatto una campagna di stampo meridionalista, tra la gente, cercando il più possibile l’empatia con le persone e puntando su una serie di questioni centrati: l’agenda sociale e la difesa dei più deboli, ben oltre alcune effigi, come il reddito di cittadinanza. Ha dato al Paese un orizzonte nuovo, puntando sulla differenza con gli altri partiti presenti nella scheda elettorale e che colpevolmente hanno lasciato un’intera fascia della popolazione sguarnita e senza rappresentanza.
Ora che i buoi sono scappati e che la destra si appresta a governare per cinque anni con un’ampia maggioranza e con un programma fortemente conservatore, tutti – nessuno escluso – sono pronti a scagliarsi contro il capro espiatorio, Enrico Letta. Ed è vero, l’atteggiamento incomprensibile del Segretario Pd, probabilmente più dettato dal personalismo, che da una (seppur miope) visione, ha di fatto regalato il Paese alla destra. Con la scelta di appiattirsi su Mario Draghi ed escludere a priori l’alleanza con Conte ogni speranza è stata bruciata sul nascere, visto che da subito i numeri erano talmente sproporzionati da non lasciare nessun dubbio sull’esito finale.
Ma è troppo semplice con il senno di poi, troppo facile e scontato l’esito per poter pensare che tutto si possa ricondurre a una colpa del Segretario. Letta ha detto che non si candiderà al prossimo congresso del partito, lasciando intendere che comunque punterà a rimanere in carica fino a marzo, data della scadenza naturale del mandato. Tacciono le chat e parlano invece i corridoi del Partito: tutti si stanno organizzando per una nuova assise e per tornare per l’ennesima volta alla conquista di ciò che rimane del Pd.
Non si leggono particolari analisi da parte dirigenti su quello che è accaduto; nessuno, sta alzando la mano per ammettere anche un solo errore. Si assiste piuttosto a un indecoroso affollamento di nomi già noti pronti a candidarsi al ruolo di segretario, come se nulla fosse accaduto, si punta all’ennesima azione di sottile trasformismo per ritrovarsi tra gli scranni del Parlamento, continuando a dimenticarsi del corpo sociale e di ciò che rimane dell’eredità del più grande partito comunista dell’Occidente.
Possibile che nessuno abbia il coraggio di avanzare una autocritica? Di dire: ho sbagliato? Nei giorni in cui Letta convintamente chiudeva la possibilità di alleanze con il principale partito progressista del campo largo, spalancando le porte a Calenda, nessuno ha avuto il coraggio di dire nulla, di annunciare una flebile mozione, di chiedere una consultazione della base. L’unico è stato Goffredo Bettini, giorni dopo seguito dal ministro Orlando, ma subito attaccato da vari esponenti liberali, anche loro oggi, disposti ad allearsi con il Movimento Cinque Stelle. Nessuno che abbia eccepito sulla scelta, fatta senza alcuna consultazione degli iscritti, con tanto di ben servito alla partecipazione e a tutta la “costruita” narrazione delle Agorà. Anche le liste, decise velocemente in quei giorni di agosto, non sono state sottoposte al vaglio dei circoli, se non in rari casi. Lo scollamento tra il corpo elettorale del partito e i vertici non si è mai sentito come in quei giorni.
Sarebbe un atto di onestà riconoscere le colpe storiche di questa débâcle, frutto di scelte scellerate, che hanno servito il Paese alla destra su un piatto d’argento. Colpe che appartengono a tutta la classe dirigente del Pd, pochi esclusi. Una classe dirigente sulla quale forse è arrivato il momento di fare qualche riflessione, essendo essa stessa la principale fonte di problematiche all’interno della politica di Sinistra del Paese.
Non è difficile capire come mai nessuno abbia avuto il coraggio di ribattere alla fallace strategia del Segretario quando era il momento giusto per farlo. Non c’è stata nessuna mozione interna alla direzione del Partito, perché tutti stavano attendendo il visto alla propria candidatura. È stato regalato il Paese alla destra solo per una serie di infimi egoismi di sorta, legati a carriere individuali. Ora sarà interessante vedere come la gran parte dei dirigenti farà finta di nulla, ritrattando tutti i propri sbagli.
La politica con la P maiuscola è innanzitutto altruismo ed è solo con la generosità che si trasmette all’elettorato fiducia. Quando diventa mero egoismo e difesa d’interessi di sorta, lo scollamento tra i centri del potere e il Paese reale si fa talmente ampio da risultare incolmabile.
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