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    Noi, stranieri a casa nostra

    Sono arrivata in Italia quando avevo 9 mesi, oggi ho 27 anni e non posso avere la cittadinanza perché non soddisfo i requisiti di reddito. La legge in vigore è anacronistica e classista. Ecco perché va cambiata

    Di Insaf Dimassi
    Pubblicato il 6 Set. 2024 alle 13:30

    Oggi, parlare di cittadinanza senza essere faziosi sembra quasi impossibile. Ancora più difficile è credere che il tema sia tornato in auge non per motivi materiali, ma per ragioni ideali. Eppure, se ne discute molto, e forse è giunto il momento di fare chiarezza, se non agli altri, almeno a sé stessi. 

    Mi presento: sono Insaf Dimassi, una di quelle italiane intrappolate nel limbo dell’identità senza status giuridico. Sono nata in Tunisia, ma all’età di 9 mesi sono arrivata in Italia. Da quel momento, l’Italia, l’Emilia, è diventata casa mia. 

    Quando avevo poco più di 18 anni, mio padre ha ottenuto la cittadinanza italiana. Io ero diventata maggiorenne da appena venti giorni. Secondo l’articolo 14 della legge 91/1992, che disciplina l’acquisto della cittadinanza, un adulto straniero che ottiene la cittadinanza può trasmetterla solo ai figli minorenni. Così, le mie sorelline sono diventate cittadine italiane, mentre io sono rimasta straniera. 

    Nello stesso anno, i miei genitori hanno divorziato, e mio padre, che fino ad allora si occupava economicamente della famiglia, non faceva più parte del nostro nucleo familiare. Questo ha comportato la perdita di uno dei tre requisiti indispensabili per ottenere la cittadinanza: il reddito. 

    Il motivo per cui non sono ancora cittadina è il grande paradosso della mia vita: lo studio. A 18 anni, infatti, ho scelto di continuare a studiare invece di andare a lavorare. Ho lavorato duramente per mantenermi gli studi, ma quel reddito non era sufficiente per ottenere la cittadinanza. Ora, dopo 26 anni e tre mesi di vita in Italia, con una laurea triennale, una magistrale, un master e un dottorato in corso, mi ritrovo ancora straniera in casa mia. Ritengo, dunque, che qualche riflessione su questa riforma sia più che dovuta. 

    È fondamentale liberarsi da ogni posizione ideologica e abbracciare una riflessione razionale. Dal mio punto di vista, offrirò scorci di vita e anni di studio e analisi; a voi, chiedo solo di leggermi senza pregiudizi. 

    Le regole attuali
    La legge che disciplina l’acquisto della cittadinanza è la legge 5 febbraio 1992, n. 91. Questa normativa è stata emanata 32 anni fa, in un contesto socio-culturale completamente diverso.

    Alcuni dati: all’epoca, la popolazione straniera in Italia ammontava a poco più di 600.000 persone; oggi è di circa 5 milioni, quasi il 9% della popolazione totale. Quando la legge sulla cittadinanza fu emanata, non esisteva nemmeno la categoria alla quale apparteniamo noi: figli di genitori migranti, ma italiani. Italiani con background migratorio, di seconda generazione, senza cittadinanza, chiamateci come volete. 

    Questa legge nasceva in un’epoca in cui la maggior parte delle persone immigrate erano uomini in cerca di fortuna nel sogno europeo. Il legislatore di allora (forse) si scordò di chi emigra per lavorare, generalmente forma una famiglia o, più frequentemente nella fase iniziale, si ricongiunge con essa. La moglie e i figli, lasciati in patria, avrebbero raggiunto il padre emigrato in solitudine una volta trovato un lavoro e una casa. I figli successivi sarebbero nati in Italia. 

    È ragionevole pensare che il legislatore, più che dimenticarsi di queste dinamiche strutturali, abbia ritenuto opportuno delegare la modifica della legge a chi avrebbe assistito a questo processo, integrando il tassello mancante dei figli dell’immigrazione. Tuttavia, non credo che nemmeno lui si sarebbe aspettato che sarebbero trascorsi 32 anni e che il numero di figli italiani senza cittadinanza avrebbe raggiunto il milione.

    Condizioni
    All’epoca, i criteri individuati ritenuti necessari per ottenere la cittadinanza per naturalizzazione erano (e sono rimasti) sostanzialmente quattro: reddito; anni di residenza; assenza di condanne penali; conoscenza della lingua.

    I criteri erano perfettamente coerenti e comprensibili con le esigenze dei tempi. La legge era pensata per adulti arrivati in Italia in età adulta, portatori di un’altra cultura, di un’altra lingua, che conoscevano altre leggi e un altro sistema giuridico. 

    A loro si chiedeva: di non pesare sul sistema economico italiano, ma al contrario di contribuire attivamente alla sua crescita, dimostrando di percepire un reddito (8.263,31 euro senza coniuge né figli a carico, 11.362,05 euro per il richiedente con coniuge a carico e 516,00  euro per ogni figlio a carico); di dimostrare la volontà di rimanere sul territorio italiano certificando al momento della domanda 10 anni di residenza continuativa in Italia; di non avere condanne penali; di dimostrare la conoscenza della lingua italiana (inizialmente certificata al livello A2, dal 2018 con l’entrata in vigore dei decreti sicurezza, livello B1 del Quadro comune di riferimento europeo per la conoscenza delle lingue).

    Oggi non si sta discutendo di modificare i requisiti per tutti, ma semplicemente di colmare un vuoto normativo, aggiungendo un tassello alla legge attuale. 

    La 91/92, infatti, allo stato attuale, non prevede una normativa specifica per l’ottenimento della cittadinanza da parte dei ragazzi che in Italia sono nati o sono arrivati molto piccoli: essi devono soddisfare gli stessi requisiti imposti agli adulti stranieri. 

    Dibattito
    Dopo anni di riflessioni, sembra che oggi si sia raggiunta un’intesa comune, identificando il requisito di frequenza scolastica come il più adeguato per garantire un accesso agevolato alla cittadinanza per chi nasce o arriva da piccolo in Italia: il cosiddetto Ius Scholae. 

    Le scuole di pensiero su questo argomento sono diverse. In passato, si era proposto di garantire l’accesso a chi completava 5 anni di frequenza scolastica; la proposta attuale richiede il completamento di un percorso di studi, cioè 10 anni di frequenza scolastica. Alla base, però, vi è lo stesso concetto: per chi nasce in Italia o arriva molto piccolo (entro i 12 anni di età), i requisiti per richiedere la cittadinanza non possono essere il reddito o la residenza, ma la scuola. Questo è il criterio più logico e meno discriminatorio quando si parla di giovani. 

    La maggior parte dei giovani italiani senza cittadinanza, come me, non ha lo status giuridico per via del reddito. Questo è ingiusto, perché ciò che ci rende italiani non è la nostra dichiarazione dei redditi, ma la nostra stessa esistenza qui, nel Paese che ci ha cresciuto, formato e reso, volenti o nolenti, cittadini. Relegare il destino e il futuro di un giovane alla condizione economica propria o dei propri genitori non solo è ingiusto, ma è anche orribilmente classista. 

    Non è un segreto che trovare lavoro per i giovani oggi sia molto più difficile che in passato. E i figli non possono essere vittime del destino o della povertà dei propri genitori, stranieri e discriminati sul posto di lavoro. La povertà non è una colpa, soprattutto in un Paese economicamente insicuro e che non ha vergogna di mostrare il proprio razzismo. 

    Noi giovani italiani con background migratorio, di migratorio abbiamo solo il background. Nessuno di noi ha scelto di emigrare, a differenza dei nostri genitori che, per necessità o volontà, hanno deciso di lasciare il proprio Paese. Noi abbiamo solo subito una scelta fatta da altri, ritrovandoci cittadini di un Paese che non abbiamo vissuto, e a vivere in un Paese che non ci considera cittadini.

    Come dice una delle costituzioni più belle al mondo, il compito della Repubblica è quello di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, non di ignorarli.

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