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    “La Cina non sarà mai una democrazia ed è il momento che il mondo lo capisca”: intervista a Alessandro Aresu

    Dialogo con l'autore del libro “Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina”. Viaggio sullo scontro fra Washington e Pechino attraverso gli occhi del passato, della cultura delle due potenze, di tutto quel sottobosco fatto di movimenti, storia, apparati statali e burocratici che regolano la “partita” fra i due giganti

    Di Maurizio Carta
    Pubblicato il 2 Feb. 2021 alle 12:37 Aggiornato il 2 Feb. 2021 alle 12:40

    “La difesa è molto più importante della ricchezza”, argomentava lo scozzese Adam Smith, che nel 1776 riusciva a dare alla luce una fra le opere che – con tutta probabilità – ha cambiato il volto del mondo nell’approccio economico, industriale e commerciale. Si tratta del libro La Ricchezza delle Nazioni, testo ritenuto fondante dell’economia politica.

    Ancora prima di immergersi nel libro, già nel prenderlo in mano e sfogliandolo nelle pagine che ne costituiscono la prefazione, tale frase introduce uno degli architravi del lavoro di Alessandro Aresu, autore del saggio Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina, edito dalla casa editrice La Nave di Teseo.

    Alessandro Aresu è direttore scientifico della Scuola di Politiche, consigliere della rivista Limes, direttore degli investimenti Deep Tech della Fondazione ENEA Tech. Un lavoro che parte da lontano, con l’approccio storico, filosofico e geopolitico dal quale è impossibile prescindere se si vuole comprendere lo scontro fra i due giganti economici del pianeta, appunto, gli Stati Uniti e la Cina. Nell’opera di Aresu, ciò che rimane impresso, è sicuramente l’approccio storico-filosofico. Il libro traccia infatti un percorso di lettura sullo scontro fra le due potenze attraverso gli occhi del passato, della cultura, di tutto quel sottobosco fatto di movimenti, storia, apparati statali e burocratici che regolano la “partita” fra i due giganti. Lo abbiamo intervistato:

    Tutte le potenze della storia sono state talassocrazie (potenze marittime) e la Cina aspira a diventarlo. Lei cita, fra gli altri, la celebre opera “The Influence of Sea Power Upon History” di Alfred Mahan sulla forza e l’importanza della flotta navale. Oggi il controllo dei colli di bottiglia appare fondamentale per avere peso specifico per salvaguardare e governare i traffici e, spesso, i cavi sottomarini. Chi ha voluto essere una potenza, insomma, doveva avere il controllo del mare. Quanto c’è ancora di questo concetto nel mondo odierno?
    “C’è molto di questo concetto perché la realtà mondiale è marittima. Non esiste globalizzazione senza presidio dei mari. Il commercio internazionale è una vicenda di porti e container. La stragrande maggioranza dei dati passa per i cavi sottomarini che connettono i continenti. E c’è il legame tra potere marittimo, potere delle telecomunicazioni, sistema dell’intelligence: dall’Impero Britannico ai giorni nostri. Quindi due elementi importanti: la sfida tradizionale marittima tra la potenza marittima “perfetta”, l’isola statunitense, e quella geograficamente in posizione difficile, la Cina; l’approfondimento di questa sfida sul piano tecnologico e nell’integrazione tra il presidio dei mari e quello dello spazio extratmosferico”.

    La potenza economica, il libero mercato, l’essere attraenti per gli investimenti esteri. Tornando ad Adam Smith, però, il freno si attiva quando è a rischio la sicurezza nazionale. Quanto c’è di Adam Smith nello scontro fra Cina e Usa?
    “Io uso la frase di Adam Smith per cui la difesa è superiore alla ricchezza. Per indicare che il limite dei mercati sta sempre appunto, nella sicurezza nazionale, l’ombra che cammina con la vita delle potenze e che si configura nella violenza pura ma anche nell’individuazione di settori industriali che non sono sottoposti solo al mercato. Quindi la lezione è: i mercati esistono, non è che il mondo esiste senza ricchezza, ma quando si parla di primato mondiale e di primato tecnologico non sono solo le loro considerazioni a stare alla guida”.

    In una parte del suo libro, evidenzia il significato che i cinesi danno al tempo, con una prospettiva e concezione molto più estesa. Il ragionare sul lungo periodo occidentale, infatti, non è lo stesso cinese, infinitamente più lungo per concezione.  L’attesa e la gestione del tempo stanno premiando la Cina?
    “Secondo Max Weber era proprio il contrario. Cioè: il senso occidentale (protestante) del tempo e la sua razionalità era fondamentale per l’ascesa del capitalismo. Forse oggi direi che i ragionamenti occidentali sono diversi tra di loro. Pensiamo all’immaginazione del futuro di Elon Musk, al pensiero di un attore finanziario, al pensiero europeo: sono prospettive diverse. Il senso cinese specifico del tempo e della storia è anzitutto una straordinaria ambizione di continuità, più che di cesure. Xi Jinping ripete spesso “siamo la più antica civiltà della storia, siamo sempre noi da 5.000 anni”. Insomma, voi fate pure il vostro chiasso ma noi siamo e saremo sempre lì. E poi ci sono gli anniversari, come il centenario della “Cina che si è rialzata”, dal 1949 al 2049, per rispondere al secolo di umiliazione che l’ha preceduto. Gli aspetti narrativi e monumentali della storia sono sempre molto importanti. Anche in potenze come gli Stati Uniti, la Francia, la Russia, la Turchia, naturalmente”.

    Nel suo libro lei parla di capitalismo politico. La potenza e il primato strategico-economico oggi non possono prescindere dall’innovazione tecnologica. Il 5G e la questione  Huawei, i semiconduttori e il controllo di materie prime per le catene di valore della tecnologia.  La partita fra Stati Uniti e Cina si sposta quindi su geografie neutrali, ossia dove i minerali ricercati abbondano, e dove le tecnologie possono essere impiantate e implementate. Anche queste rientrano tra le categorie del colonialismo datore con caratteristiche cinesi?
    “Il mondo della tecnologia non è fatto di nuvole. A partire dallo stesso cloud che, come dicono gli informatici, è solo il computer di qualcun altro. Le cose non stanno nell’etere o nel paradiso. Vengono da qualche miniera o da qualche laboratorio, sono di proprietà di qualcuno, vengono processate e commercializzate da qualcuno, oggetti, fabbriche, negozi, reti logistiche, camion. Quando parliamo di globalizzazione e di catene globali del valore, dobbiamo vedere sempre questi nodi e queste reti di capacità e di rapporti di dominio. Da questo punto di vista, occorre sempre tenere insieme tecnologia e potere, e rapporti di forza. Quasi in senso marxista, perché è più onesto intellettualmente rispetto a discorsi sulla tecnologia disincarnata o neutrale, che è un’idea pericolosa”.

    Fra gli attori privati, una dovuta menzione va ai grandi “player finanziari”. Un attore come la società d’investimento del Ceo Larry Fink, BlackRock, per esempio, attraverso le sue varie ramificazioni, esercita un potere enorme su scala planetaria con partecipazioni azionarie ovunque. Cosa significa davvero “potere” nel ventunesimo secolo? Esiste un mondo fatto di “Repubbliche Societarie” per potenza parallelo a quello degli Stati?
    “Nel mio libro racconto le vicende parallele di due figure che mi hanno da tempo interessato, appunto Larry Fink ed Elon Musk. BlackRock, assieme a Vanguard e altri grandi gestori, sono dei padroni del mondo sostanzialmente “passivi”: dentro tantissimi listini e tantissime aziende ma raramente per prendere decisioni determinanti su governance e direzione, al contrario dei cosiddetti attivisti (es. Elliott, che abbiamo conosciuto anche in Italia). Poi una realtà come BlackRock ha forte connessione politica, negli Stati Uniti attraverso le porte girevoli, soprattutto coi Democratici, anche nell’amministrazione Biden. Quindi, “comandano” loro? Troppo semplicistico. Ricordo che sono sottoposti alle decisioni degli apparati degli Stati Uniti. Cosa significa nel concreto? Che di recente il Pentagono ha messo in una lista nera alcune aziende cinesi, BlackRock e altri investitori avevano investito centinaia di milioni e hanno dovuto vendere. Elon Musk è invece un attivismo completamente diverso del contesto statunitense: la potenza dell’innovazione sulle cose, che è tornata a contare pesantemente dopo un’epoca in cui la capacità ingegneristica fisica statunitense non era più centrale rispetto ad altri ambiti di innovazione”.

    Lei menziona nel suo libro lo storico Graham Allison e il concetto della Trappola di Tucidide, ossia il conflitto inevitabile fra un potenza calante e una ascendente, all’epoca Atene e Sparta. La Cina però non è certo una democrazia. E’ questo l’aspetto da temere di più?
    “Penso che la trappola di Tucidide non ci serva per capire la realtà attuale e futura. Il libro di Allison è bello perché parla a lungo di Lee Kuan Yew di Singapore,  dicendo cose interessanti, ma non per questa formula, a mio avviso. Riusciamo forse a capire la Cina parlando della Grecia? Ma no, sono mondi diversi, concetti incomparabili. La Cina non è una democrazia, né lo sarà. Per evitare il conflitto bisogna capire anzitutto su cosa può scoppiare e su cosa no: per esempio Hong Kong non è un problema che evolverà mai in guerra, Taiwan può diventarlo invece.

    Per capirsi bisogna anzitutto conoscersi. Io penso che oggi i cinesi non conoscano gli Stati Uniti abbastanza, ma li conoscono più di quanto gli statunitensi conoscano la Cina. Per esempio ci sono rapporti, credo piuttosto attendibili, che indicano come le capacità di intelligence degli Stati Uniti sulla Cina siano del tutto inadeguate: insomma, la prima potenza mondiale questa organizzazione che si chiama Partito Comunista Cinese non la conosce bene, non capisce meccanismi decisionali e strategie.

    Penso che l’amministrazione Biden, dopo che Trump ha posto il faro sulla questione cinese ma affrontandola spesso con provvedimenti sbagliati (come quelli sul commercio, alla prova dei fatti), abbia un lavoro culturale e storico molto importante da fare. Non solo verso la Cina ma anche verso Paesi che in ottica manifatturiera anti-cinese saranno sempre più rilevanti. A partire dal Vietnam, che non è certo una democrazia”.

    Lei parla di Europa (intesa come Unione Europea) e delle sue carenze per poter emergere come un vero attore politico sulla scena globale, se non altro nel breve periodo. Ma in un mondo che ragiona per “blocchi continentali” quali possono essere le contromosse quantomeno per poter continuare ad essere un soggetto/area influente?
    “Io conferisco molta importanza alle questioni industriali. Le capacità industriali europee nelle catene del valore tecnologiche globali ad alto valore aggiunto sono declinate. Soprattutto nel digitale, dove ci mancano le truppe: abbiamo qualcosina nei semiconduttori, la presenza nel 5G e poco altro. Quello che io dico è: attenzione, la corsa in questi termini è sempre più importante e viviamo in un mondo dove la capacità militare è un tema serio, soprattutto ai confini dell’Europa, come mostra l’attualità. E noi cosa abbiamo fatto in questo decennio in cui la Cina è diventata una società digitale avanzata, le aziende statunitensi nel cloud sono diventate sempre più dominanti e la Turchia ha assunto una postura imperiale?

    La verità è che abbiamo parlato per anni di quanto era il debito pubblico greco e dell’output gap, abbiamo investito poco, non ci siamo trasformati davanti ai cambiamenti globali, non siamo stati all’altezza del presente. E ora esserci in futuro in certe partite, anche come blocco continentale, sarà sempre più difficile. Anche perché in questo mondo, senza grande dimensione di industrie, non hai presenza geopolitica.

    Quando facciamo operazioni industriali a livello continentale, ci facciamo la guerra tra di noi, come hanno fatto i francesi verso Fincantieri, addirittura col Parlamento francese che ha detto che è preoccupato dai rapporti dell’azienda italiana con la Cina. Peccato che Fincantieri lavori con la Marina militare USA: ma vi pare che se ci fossero problemi con i cinesi potrebbero lavorarci? Quindi, se continuiamo così, dove vogliamo andare?”.

    Apertura di Nixon nei primi anni ’70 (1972), poi ingresso nel WTO nel 2001 e adesso punta al primato economico, quantomeno in termini di Pil. E’ lo stesso Occidente, in qualche modo, che ha “svegliato” la Cina. Ma se un giorno la democrazia germoglierà anche in Cina dovranno pur frenare la corsa. Sarà allora che calerà il numero dei container del Dragone che viaggiano sugli oceani?
    “Tutto è possibile ma io non vedo la democrazia nell’orizzonte della Cina. Non che la democrazia non mi piaccia, per esempio, la libertà d’espressione è la cosa che preferisco, ma non per questo dobbiamo credere che in Cina la democrazia arrivi. Tra le sfide cinesi di questo decennio, secondo me quella che inizierà a porsi e sarà sempre più pesante in futuro sarà l’invecchiamento della popolazione. Oltre ai pessimi rapporti coi vicini”.

    Per concludere, usciamo fuori dalla contesa sino-americana. Adam Smith, e Max Weber, solo per citarne due dei tanti. Quanto sono importanti le letture della filosofia per vedere dalla giusta prospettiva il mondo odierno in un mondo che richiede sempre più ingegneri e matematici? Non si sottovaluta troppo questa disciplina?
    “Io sono di formazione filosofica e umanistica e poi, nella mia vita e nella mia carriera, sono sempre stato molto interessato al dialogo con le persone di formazione scientifica. Per me la forza della formazione è sempre il dialogo. L’economia ha la sua genesi sul piano storico, nei rapporti con la filosofia e nell’idea di scienza dello Stato. Ma penso che formare ingegneri, medici, fisici sia importantissimo e che la cultura scientifica nel nostro Paese abbia avuto troppo poco la dignità che merita: basti vedere la bellissima saggistica scientifica che pubblicano negli Stati Uniti e che noi umanisti a volte non guardiamo abbastanza”.

    Aresu in conclusione, evidenzia l’importanza della formazione nella sua interezza, diversità e complementarità: “Come possiamo analizzare il ruolo della scienza senza la storia? Come possiamo per esempio guardare l’avventura umana della conquista dello spazio, dallo Sputnik a oggi, senza considerare il periodo storico in cui si colloca e la competizione tra le potenze? Quindi a mio avviso la lezione è che tutti, con una diversa formazione, abbiamo bisogno di imparare gli uni dagli altri”.

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