“Chiama mamma“: sul terreno di Wembley che ha calpestato per tre volte nel corso del campionato Europeo mettendo a segno due gol – quello contro l’Austria agli ottavi di finale e quello contro la Spagna in semifinale – provandoci molte più volte e contribuendo in modo decisivo alla vittoria della Nazionale, Federico Chiesa avvicina il telefono alla bocca e attiva il comando vocale per parlare con sua madre.
Un’immagine intima e diversa da quella data fino a pochi minuti prima dal giovane in campo, dove dribblava gli avversari mostrando carattere e determinazione; un gesto semplice che ognuno di noi ha fatto almeno una volta nella vita dopo una notizia o un risultato importante: chiamare la mamma. Con la differenza che difficilmente quel risultato consiste nella vittoria di un campionato sportivo internazionale o viene trasmesso in diretta televisiva.
Lo compie anche Chiesa, 23 anni e già a un punto cruciale della sua carriera, iniziata da giovanissimo grazie anche al clima respirato in famiglia con il papà Enrico. I compagni esultano, i rumori dei festeggiamenti sovrastano lo stadio di Wembley, i coriandoli invadono il cielo di Londra, ma la punta destra della cavalcata azzurra cerca di parlare con Francesca Chiesa, e per un attimo il campione ci sembra “solo” un giovane ragazzo che in un momento importante vuole parlare con la madre. E l’impresa appena realizzata qualcosa in cui potersi immedesimare.
Poco prima il compagno di squadra, Alessandro Florenzi, classe 1991, afferrando la medaglia del primo posto appena ricevuta dai dirigenti della Uefa si rivolge alla madre a favore di camera e dice: “Guarda mamma”. Poi su Instagram condivide una foto in cui bacia la coppa con lo stesso commento. Sembra che i suoi pensieri siano tutti rivolti a lei, come quando nel 2014 dopo la partita della Roma contro il Cagliari salì in tribuna a salutare la nonna.
È una sensazione che serpeggia tra tutti i componenti della Nazionale: ragazzi nati negli anni ’90 alla loro prima e più importante esperienza professionale, seri e battaglieri sul campo, leggeri e sorridenti negli spogliatoi, semplici e con un forte attaccamento alla famiglia di origine e a quella che si sono costruiti nonostante la giovane età. Dedicano a loro i gol e i traguardi: come Lorenzo Insigne, nato nel 1991 a Frattamaggiore, in provincia di Napoli, che simbolicamente rivolge la coppa europea alla moglie, ai figli e a quella famiglia che “non lo ha mai lasciato solo”.
O Leonardo Bonucci, veterano e tra i più adulti della squadra, che dopo il gol che ha sbloccato la partita contro l’Inghilterra al 67esimo ha mimato la lettera L e la M, dedicate ai figli Leonardo e Matteo (oltre al consueto “sciacquatevi la bocca..”). Certo, anche Francesco Totti durante i Mondiali del 2006 – dopo aver abituato i tifosi ai messaggi rivolti alla quasi fidanzata Ilary Blasi sin dal 2002 con la maglia “6 unica” – mimò il gesto del “pollicione” dedicato a quella che nel frattempo era diventata sua moglie dopo il rigore segnato contro l’Australia, ma le famiglie alle spalle di quei calciatori, da Luigi Buffon a Fabio Cannavaro, erano più note e patinate, le compagne erano in molti casi donne dello spettacolo e i campioni ad uno stadio più avanzato della propria carriera.
L’attaccamento dei giovani della Nazionale del 2021 ai propri cari trasmette un sentimento che per la propria famiglia provano più o meno tutti, e che poco ha a che fare con il gossip o il glamour: l’affetto, la voglia di sentirsi compresi e protetti e di riconoscersi in un proprio simile. Una storia tutta italiana di figli che amano le proprie mamme e di genitori che pensano ai propri figli, in linea con l’immagine di un gruppo in cui non sono emerse individualità che hanno sovrastato le altre, ma in cui a fare la differenza rispetto ad altri team è stato proprio il gioco di squadra, lo spirito di solidarietà tra compagni e l’unità. I valori più autentici che una famiglia, di qualsiasi composizione, insegna o dovrebbe insegnare, e che rendono forte l’Italia.
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