Qualche giorno fa sono andata a trovare i miei genitori e mio padre, dopo cinque minuti di chiacchiere sul Covid e su come va il mondo, mi ha detto che la storia di Nicola, il bambino che se ne è andato in giro per i boschi del Mugello smarrendo la strada, l’ha molto colpito. Perché “tutti voi, alla fine, siete dei miracolati”, ha detto. Per “tutti voi” intendeva me e due miei fratelli.
Ce ne era anche un altro, di fratello, Simone, venuto al mondo qualche anno prima di me. Era nato da poco, dormiva nel suo lettino in ostetricia. Secondo la ricostruzione dei miei genitori, un’infermiera uscì forse a fumarsi una sigaretta, lui ebbe un rigurgito. Morì soffocato.
La distrazione, la leggerezza, l’irresponsabilità di un adulto che doveva badare a dei neonati sono costate la vita a un fratello che non ho mai conosciuto. Nonostante tutto, nonostante io e i miei fratelli, invece, si sia usciti da quell’ospedale in perfetta salute e la nostra incolumità da bambini sia dipesa soprattutto da mio padre e da mia madre, papà due giorni fa parlava di noi altri come dei “miracolati”.
E usava questa espressione perché ben consapevole del fatto che quasi tutti gli adulti del mondo, investiti del difficile ruolo di prendersi cura di bambini piccoli, hanno vissuto quegli attimi di pre-morte che sono il momento in cui qualcosa – si scopre – è sfuggito alla loro attenzione.
Il momento in cui ti volti un attimo e tuo figlio non è più accanto a te. Quello in cui vai a girare il sugo nella pentola e tuo figlio ha avuto il tempo per arrampicarsi da qualche parte. Quello in cui rispondi al telefono e tuo figlio sta infilando un soldatino nella presa. Quello in cui lasci giocare tuo figlio con altri bambini in una stanza bonificata che neppure il palco da cui parla Saviano e trovano modi incredibilmente creativi per farsi male. Quello in cui sei convinto che tuo figlio sia lì e invece se n’è andato.
Di solito, sensazione di pre-morte a parte, non succede nulla. Qualcuno, purtroppo, è più sfortunato. Sì, perché la fortuna, quando si parla di figli e imprevedibilità, è un fattore fondamentale.
Secondo i ricordi di mio padre, tutti noi da piccoli ci siamo giocati dei jolly-vita piuttosto importanti. Il mio me lo sono giocata a 4 anni, quando trascinai una sedia dalla cucina al terrazzo del secondo piano dei casa nostra, la avvicinai al parapetto di cemento e ci salii sopra, per poi camminare su quel parapetto.
“Quando ti ho vista lì, non sapevo se urlare rischiando di spaventarti e farti cadere o avvicinarmi con calma. Solo panico”, mi ricordava papà. Insomma, mi è andata bene.
Mio fratello più grande ha dato fuoco al suo lettino. Si sono accorti in tempo del fumo, ma c’è mancato poco che prendesse fuoco tutta casa. Quello più piccolo faceva il bagno in mare con me e mio fratello, a Sorrento. Io l’ho visto galleggiare a pancia in giù, dall’acqua ho chiamato i miei, che prendevano il sole, dicendo che “nuotava strano”. Ricordo ancora mia madre che si butta in acqua vestita.
E queste sono le volte in cui sono intervenuti i miei. Mio padre non c’era quando legai una corda e mi calai giù dal primo piano cadendo o quando mio fratello mi impiccò a un albero e così via. I miei sono stati genitori irresponsabili, poco attenti, da segnalare ai servizi sociali? Direi di no. Sono stati però fortunati, come quasi tutti i genitori al mondo. E, sì, noi siamo dei miracolati.
Certo, vivevamo in campagna, ma non è poi nemmeno così vero che in un giardino ci siano più insidie che in una casa, in cui la curiosità di un bambino magari non va oltre un cespuglio ma si ferma a un vano elettrico o a una finestra lasciata socchiusa.
Le polemiche sul piccolo Nicola e la presunta scelleratezza dei suoi genitori definiti “hippy”, “fricchettoni”, “irresponsabili”, “criminali” da pancine e commentatori vari tra social ed editoriali mi ha colpita molto proprio perché parte da un assunto presuntuoso e illusorio, ovvero quello di avere sempre l’assoluto controllo sui figli.
Che siano grandi o piccoli, non importa. Se sono piccoli “io non li perdo mai di vista”, se sono grandi “io li ho cresciuti con delle regole e dei valori”. L’idea che i figli possano improvvisare dei fuori-pista, per molti genitori e giudici inflessibili dell’altrui genitorialità, è un’idea fuori dal mondo. Un’idea, a dirla tutta, più hippy e utopica di quella dei due hippy che fanno crescere i bambini nella natura, senza corrente elettrica. E per certi versi, pure più pericolosa.
Io, da madre, ho cercato di fare del mio meglio ma, tirando le somme, anche mio figlio in fondo è stato fortunato. Sarebbe potuta andare diversamente. Lo so. Quel giorno in cui Leon in venti secondi ha nuotato fin quasi alla boa, attaccato a una tavoletta, convinto di inseguire uno squalo, sarebbe potuto andar giù, senza che facessi in tempo a riprenderlo.
Quella sera in cui è sparito dietro una fila di cabine dello stabilimento a palafitta di Mondello, le mie corse per tutto il pontile, fila dopo fila a cercarlo, convinta che fosse caduto in mare, al buio, e invece era con un bambino a chiacchierare, dentro una cabina.
Quella volta in cui lo avevo portato con me in radio e lui era dall’altra parte del vetro col cane. Finisco i tre minuti di diretta, parte la pubblicità, apro la porta e non c’erano né lui né il cane. Mi precipito al pian terreno, il portiere mi dice che ha visto uscire il bambino di corsa. Il cane era scappato, lui lo aveva rincorso fino ai binari del tram di corso Sempione, un ragazzo lo aveva aiutato. Potevano finire sotto il tram sia lui che il cane. Mi è andata bene. Gli è andata bene. È andata bene anche a Godzilla, che nel frattempo ha avuto il tempo di diventare anziano e cardiopatico.
Ho cresciuto mio figlio quasi sempre da sola, mi sono persa dei pezzi ma ho fatto anche degli stupefacenti salti mortali, ho peccato di leggerezza, talvolta, ma sono stata più spesso attentissima. Ho fatto quel che potevo. Credo perfino di passare per una buona madre, ma la linea che mi separa dall’essere stata una madre degenere è sottilissima. Sarebbe bastato un attimo. La tavoletta che scappava di mano, un piede messo male sul pontile, il tram che passava in quel momento.
Io, che come madre non ho mai avuto ambizioni di perfezione, lo racconto con serenità, pur considerando quegli episodi come traumatici. Almeno 12 capelli bianchi li devo alla storia del pontile a Mondello. Così ha fatto mio padre.
Non è facile assolversi, anche se è andata bene. Sopravvive sempre un residuo di senso di colpa. So assolvere molto bene, però, quelli a cui è successo quello che è successo a me (ovvero quasi tutti i genitori), magari con esiti meno fortunati. E, se non assolvo, concedo delle attenuanti, sempre.
Nel caso di Nicola e dei suoi genitori non riesco ad essere severa e definitiva. Certo, hanno aspettato un tempo infinito prima di chiamare i soccorsi, ma sul “perché” sia successo non ho dubbi: perché sono genitori. Imperfetti, non più hippy di tanti di noi che inventiamo soluzioni creative per incastrare le nostre vite con quelle dei figli, che i figli li rimbalziamo tra nonni, tate, asili e ci perdiamo pezzi che altri sanno riparare. O che rattoppiamo noi, alla buona, più spesso di quanto vogliamo ammettere.
Non so cosa convinca tanti genitori e tanti non genitori di non poter mai sbagliare con i propri figli, di avere sempre il controllo della situazione, di non conoscere inciampi e sbadataggine, ma una cosa è certa: chi non concede attenuanti agli altri, non le concede neppure a se stesso. E non deve essere una vita bellissima neppure per il bambino che si ritrova per genitore una madre o un padre per cui la fallibilità è un’onta. Una madre e un padre che non sapranno gestire il primo, inevitabile, inciampo in quella cosa – ahimè – disseminata di imprevisti e di casini che rovinano i piani, le intenzioni, i progetti a breve e a lungo termine: la vita.
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