Il conflitto ucraino infuria dal lontano 2014 (personalmente l’ho seguito sul campo, in Donbass, nel 2017), si combatte attivamente da otto anni e per molti osservatori di quell’area era chiaro che Putin volesse “consolidare” le posizione occupate per festeggiare un onorevole e vittorioso decennale dall’invasione.
Quali fossero i disegni imperialistici di Putin è poi noto a tutti, funzionari europei a parte (ma questo è un altro discorso), dai tempi del Teatro Dubrovka, dall’uccisione di Anna Politovskaya, dalla Georgia, dai casi Skripal e Navalny, dall’ingresso dei “little green men” in Crimea e poi nel Donbass. La guerra in Ucraina – le trincee, combattimenti corpo a corpo, i bombardamenti – è il primo conflitto dei tempi moderni che ci riporta realmente indietro di decenni, ricorda la Seconda Guerra Mondiale, uno scenario bellico di tipo tradizionale, uno scontro tra due Nazioni.
Un conflitto dove sono tornati in auge gli strumenti più comuni dopo le armi da fuoco: l’assedio, “o la resa o la morte”, l’affamare l’avversario per terrorizzarlo; ed è il primo, dai tempi moderni, che ricorda a tutti che in guerra si muore, e nella maniera più atroce. L’unico esempio che abbiamo riguardo la conclusione di una guerra tradizionale è stato Hiroshima e le zone del Mondo in cui i conflitti si sono conclusi con vittorie militari sono ora cumuli di macerie, luoghi anarchici regolati da milizie dove le armi spadroneggiano.
I conflitti nel corso della storia hanno sempre avuto vinti e vincitori, ma la maggior parte delle volte ci si è arrivati con i tavoli negoziali, con il diritto internazionale, con la diplomazia, ovvero gli strumenti più consoni oltre le armi a dirimere una controversia armata; strumenti che dall’alba dei tempi evitano che l’umanità vada in frantumi travolta da “armata manu”.
Per questo, all’alba del conflitto, pochi giorni dopo l’ingresso dei blindati russi sul suolo ucraino, gran parte del mondo diplomatico “consigliava” all’Ucraina una neutralità che di fatto esisteva da sempre. Una neutralità voluta dalla geopolitica, dall’“evitabilità delle guerre” (per citare Kissinger) e dal fatto che l’Ucraina non era pronta a entrare né nella Nato né nell’Ue.
L’escalation militare era evitabile e lo può ancora essere se i consessi internazionali tornassero in prima linea, come fu con il formato di Antalya, completamente sparito dallo scenario e sostituito da una “red line” tra i generali del Cremlino (non con Putin) e i generali del Pentagono (non di Zelensky).
Non è possibile dunque operare una “reductio” del concetto di pace, poiché da sempre è una parola imperfetta e la pacificazione è un processo complesso, un’articolata matassa di opzioni (non militari) da districare per giungere alla fine delle ostilità. L’unica cosa certa è che la vittoria militare non è considerabile come pace, è una faglia aperta nella quale prima o poi qualcuno proverà a infilarsi nuovamente.
In generale, poi, non si dovrebbero screditare le tante persone che sono scese in piazza o che avevano voglia di farlo, per il semplice fatto di non essere state “boots on the ground” in Ucraina. In questo modo si generalizza, si polarizza e si tralascia il fatto che in quelle piazze presenziavano persone, “pacifisti”, che magari la guerra l’hanno vissuta, subita, patita, studiata profondamente, che ne conoscono le ragioni, le cause e le conseguenze.
Non rendere giustizia a quella piazza, non valorizzarla, vuol dire privare il mondo di quell’argine che ci separa dal dover fare incetta di iodio, dall’apocalisse nucleare: perché l’idea di mondo giusto non è certamente quello di una pace armata.
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