C’è qualcosa di interessante, e di grave, nella campagna di disinformazione che ha investito il Pd dopo le dimissioni di Nicola Zingaretti. Il mio amico Francesco Merlo, per citare uno degli opinionisti di rango intervenuti sul tema, su La Repubblica ha scritto che Zingaretti si è dimesso perché aveva paura dei sondaggi. E che questo avrebbe determinato il suo strappo, il suo addio. E altri – decine di giornalisti, politici, addetti ai lavori, c’è solo l’imbarazzo della scelta – continuano a martellare su un solo tema: “Il Pd sta pagando la sua subalternità a Conte”.
Dunque ecco come viene ricostruito il film degli ultimi mesi in questo racconto ideologico (e ovviamente falso). Il partito è troppo “spostato a sinistra”, questo ha prodotto una perdita di consensi verso il M5S, “adesso va spostato il baricentro” (Claudio Tito, anche lui su La Repubblica).
La nenia che tutti intonano prosegue con il concetto curioso: ovvero che il Pd doveva abbandonare subito Conte (e il M5S) al suo destino, e cavalcare il governo dei tecnici “come sta facendo Salvini”. Questo è il mantra della cosiddetta sinistra radical chic, che io chiamo “Salvi-chic”, quella che dice di odiare la Lega, ma poi ha voluto a tutti i costi il governo con Giorgetti e Salvini.
Non sopportavano la Azzolina, e vogliono raccontare al mondo che per il Pd votare il governo con la Gelmini ministro sia un grande successo politico. Una tesi a dir poco curiosa.
Il governo istituzionale, infatti, non si regge con i voti di tutti: è un governo in cui, con una maggioranza garantita dal Pd e dal M5S, governato sette ministri di destra. Ebbene, questo racconto ideologico della crisi, e della sinistra, è una operazione di mistificazione interessata. Ed è anche questo – ovviamente – del tutto falso. Provo a spiegare perché.
1) La tanto esacrata linea Zingaretti-Bettini si poneva un problema molto semplice: nel 2022, quando si andrà al voto, di fronte ad una destra che ha già un suo sistema di alleanze solido, il Pd con chi si candida a guidare il paese? Mistero. Ma la risposta che fa tanto arrabbiare i Salvi-chic è semplice: o correrà con l’alleanza giallorossa o sarà sconfitta prima ancora di scendere in campo. Quindi dire no all’alleanza significa candidarsi alla sconfitta (o ad un nuovo governissimo). La cosa piacerà a molti commentatori, ma non piace affatto – pensa un po’ – agli elettori del Pd.
2) Il Pd nella crisi non si è “sacrificato per Conte”, ma casomai per se stesso. La campagna di demonizzazione e di delegittimazione di quel governo giallorosso, infatti, è servita per dire che il Pd non era un grado di governare da solo (il ché ha preparato il terreno all’idea – falsa – che il governo con la Lega fosse ineluttabile). Non aveva come bersaglio Di Maio: aveva come bersaglio il Pd. Ed infatti, alla campagna contro Conte, se n’è affiancata una parallela (e ancora più forte) contro Zingaretti e la sua linea: “L’ologramma” (il famoso articolo di Concita De Gregorio), l’ameba, il brocco.
Se il Pd ha avuto davvero una flessione nei sondaggi, dunque, è perché i suoi elettori hanno percepito che il suo segretario era sotto assedio, e che metà del gruppo dirigente del suo partito (i nostalgici di Renzi, quelli che per comodità io chiamo “la corrente saudita”) sparava contro il suo stesso leader, con raffiche di fuoco amico, e giocava con l’altra squadra.
Se molti elettori del Pd (e qui non servono i sondaggi, basta parlare con qualcuno, ogni tanto) hanno tutt’ora una buona opinione di Conte, e una pessima opinione dei suoi nemici interni (a partire dai “sauditi” Lotti e Guerini), il problema non è Conte, ma la pervicacia di questi capi corrente che sono apparsi unicamente “attaccati alle poltrone” (copyright Zinga) non per altri motivi: ma perché sono attaccati alle poltrone.
Infatti, nel pieno della crisi, davano interviste per attaccare il governo di cui facevano parte, e garantirsi un transito nel nuovo governo. Ma cosa ci sia dietro questi attacchi, dietro questa campagna per cercare di eterodirigere il Pd, questo sito lo racconta da quasi un anno, dai tempi dell’intervista con cui Stefano Bonaccini – interrogato da Giulio Gambino – rivelò le sue intenzioni: far rientrare Matteo Renzi, riconsegnargli il controllo del partito, visto che il suo tentativo di Italia Viva è abortito nel nulla.
Quello di Renzi, infatti, si è dimostrato un partito “scaccia-elettori”, che anche nel migliore dei sondaggi non prende neanche i voti che servono a superare lo sbarramento elettorale. Ecco dunque che il tema da porsi è questo: il centrodestra marcia diviso e colpirà unito.
Il capolavoro politico del Governo Draghi è quello di aver creato una destra che gioca con perfetta disinvoltura su due tavoli. Fuori c’è Giorgia Meloni, che con grande abilità ha il monopolio del dissenso e dello scontento (e infatti Fratelli d’Italia vola). Dentro c’è Salvini, che mette il cappello su tutto.
Ecco perché le dimissioni di Zingaretti non sono, come sostiene Marco Damilano, un “gesto egotico” ma una mossa che mette a nudo il re: il segnale di un problema politico.
Se le cose continuano così, infatti, quando arriverà il momento del voto, i due principali protagonisti del centrodestra si sfideranno a chi prende un voto in più, e in questo modo decideranno la loro leadership di coalizione: poi, un minuto dopo, si rimetteranno insieme e governeranno sulle rovine del governo giallorosso. Che però non è stato smontato da una sconfitta elettorale. È stato demolito da questo coro suicida, dal fuoco amico: dall’odio per i giallorossi, dalla guerriglia dei “sauditi”.
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