C’è qualcosa di spaesante, disturbante, nello scambio dialettico tra la madre adottiva di Bakary e il ministro dell’Interno Matteo Salvini.
Quando una mamma lancia il suo grido di dolore di fronte a un clima di odio razziale ormai dilagante nel nostro Paese e il rappresentante delle istituzioni risponde: “La rispetto. Ma lei capisca la richiesta di sicurezza e legalità degli italiani”, non siamo più in un territorio umano, lessicale, valoriale, comune.
Non stiamo nemmeno più parlando la stessa lingua. La madre di Bakary e il ministro Salvini stanno parlando due idiomi diversi. E, per quanti sforzi possano fare, per quanto noi stessi proviamo nella nostra testa a tradurre, non si parleranno e non si incontreranno mai.
Ecco perché quel botta e risposta suona così raggelante e ci fa sentire di colpo inermi, impotenti, incapaci di reagire all’orrore.
Come è potuto accadere, in pieno Occidente, in un Paese dai mille vizi e difetti eppure civile come l’Italia, che due piani così intrinsecamente lontani come il razzismo più truce e la legittima richiesta di sicurezza dei cittadini arrivassero a intrecciarsi e mescolarsi fino a finire nello stesso universo lessicale?
Come abbiamo potuto non accorgerci quello che stava succedendo? È persino difficile individuare il punto esatto di rottura. Ma, leggendo la risposta di Salvini, è chiarissimo, limpido, come quella rottura si è ormai consumata. È qui, tra noi, nei discorsi al bar, nelle dichiarazioni di un ministro, nei sondaggi, nella violenza social, negli sgomberi eseguiti e in quelli mancati a seconda del colore politico.
Leggetela e rileggetela cento, mille volte, la risposta che ha dato Salvini. Perché lì c’è la risposta – e, di fatto, la giustificazione morale – a tutto quello che sta accadendo e accadrà nei prossimi mesi in Italia e in Europa.
Non sta semplicemente parlando alla madre di Bakary, si sta rivolgendo a tutti noi. E quello che ci sta dicendo è qualcosa di atroce, spaventoso, già visto: che il razzismo non va semplicemente condannato, ma va contestualizzato, capito, e, in fin dei conti, giustificato. È così che, quasi cento anni fa, è cominciato tutto. E, credetemi, è da qui che tutte le storie ricominciano, incredibilmente identiche nei toni, nei tempi, clamorosamente simili nelle dinamiche, eppure ogni volta improvvise e spiazzanti.
Se vogliamo fermare l’orrore prima che si ripeta, allora lo sforzo che siamo chiamati a compiere è, mai come oggi, linguistico. Dobbiamo tornare a chiamare il razzismo col proprio nome, senza confinarlo in sfere lessicali che non gli appartengono. E, soprattutto, dobbiamo pretendere che la sicurezza torni ad essere di tutti, e non di alcuni, che sia un diritto e non una concessione, senza distinzioni di pelle, sociali o geografiche. Sembra nulla, in realtà è l’ultima occasione che abbiamo.
Siamo tutti a bordo di un treno lanciato a velocità folle verso la notte. Sta a noi decidere se vogliamo essere macchinisti o semplici passeggeri. Ma sappiate che non sono previste fermate.
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