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    Assange ha scelto la libertà al posto della carriera: l’opposto di buona parte della stampa

    Illustrazione di Emanuele Fucecchi
    Di Alessandro Di Battista
    Pubblicato il 28 Ott. 2021 alle 15:45 Aggiornato il 28 Ott. 2021 alle 17:10

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    Sette anni rinchiuso nell’Ambasciata dell’Ecuador a Londra e oltre due anni nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, la Guantanamo britannica. Da quasi 10 anni Julian Assange non vede la luce del sole. Sopravvive nella speranza di poter tornare a vivere. A volte mi stupisco che sia ancora vivo.

    È appena iniziato a Londra il processo di appello sulla sua estradizione. Gli Stati Uniti lo vogliono in carcere a vita. Punirne uno per educarne cento. L’estradizione in USA per Assange sarebbe la fine. La sua senz’altro, ma anche quella della vera, irriverente, indispensabile libertà di stampa. Chi oserebbe ancora svelare la macelleria fatta dai marines in Iraq ed Afghanistan con Assange in carcere a vita? Chi avrebbe il fegato di pubblicare documenti top-secret sui potenti e le loro stomachevoli azioni, sul capitalismo finanziario e la sua capacità di influenza, sulle reali ragioni delle guerre più barbare degli ultimi cinquantanni?

    Assange, per adesso, resiste ma fino a quando ci riuscirà? Per motivi di salute non è riuscito a partecipare fisicamente alla prima udienza del suo processo di appello. Non solo. A gennaio scorso Vanessa Baraitser, giudice nel processo di primo grado, ha respinto la richiesta di estradizione ritenendo che Assange si sarebbe suicidato nelle carceri nordamericane. Ma Assange ha rischiato la morte anche negli ultimi anni.

    Sembra ormai certo che la CIA – quando l’agenzia era guidata da Mike Pompeo, ex-segretario di Stato sotto Trump – avesse un piano per assassinarlo. Una vergogna sì, ma, in fondo nulla di nuovo sul fronte occidentale. Nel mondo alla rovescia ci si scandalizza per brutali consuetudini e si tace di fronte a indecenti novità. Che la CIA intenda difendere se stessa e le sue, spesso, criminali pratiche, è moralmente deprecabile ma è storicamente, ahimè, naturale. Di innaturale qui c’è solo una cosa: la vigliaccheria della gran parte dei giornalisti. Chi dovrebbe alzare la voce resta in silenzio. Chi dovrebbe indignarsi si gira dall’altra parte. Chi sostiene di amare la libertà di stampa, in realtà, non fa altro che assassinarla con i pugnali dell’indolenza e della viltà.

    Assange ha scelto la libertà al posto della carriera. L’esatto opposto della gran parte dei giornalisti nostrani. E’ vero, c’è chi rischia il posto per un pericoloso eccesso di indipendenza. Ma è infinitamente meno di quel che Assange sapeva di rischiare nel pubblicare i leaks che hanno mostrato al mondo intero il vero volto del potere.

    La CIA fa la CIA. Si comporta secondo natura. E chi si scandalizza del suo piano per assassinare Assange dimentica la storia. La CIA ha organizzato colpi di Stato in ogni angolo del pianeta. C’era la CIA, insieme ai servizi segreti britannici (gli stessi, tra l’altro, che garantirono la protezione di Roberto Fiore quando questi fuggì a Londra) dietro alla deposizione di Mossadeq in Iran nel 1953. È stata la CIA a realizzare il golpe in Guatemala del 1954. C’era la CIA dietro l’invasione della baia dei Porci, il tentativo, fallito, di rovesciare il governo di Fidel Castro.

    Ovviamente anche altre agenzie di intelligence hanno commesso (e continuano a commettere) azioni criminali. Lev Trockij fu assassinato nell’agosto del 1940 in Messico da un agente segreto catalano al soldo di Stanil. Tra l’altro Ramon Mercader, questo il suo nome, era il fratello di Maria Mercader, moglie di Vittorio De Sica e mamma di Christian. Il KGB, negli anni, ha condotto operazioni violente, pedinamenti, arresti illegali, torture, uccisioni. Per non parlare del Mossad israeliano, massimo esperto in omicidi mirati. Anche i servizi segreti siriani hanno attuato operazioni sanguinarie. Dietro la morte di Bashir Gemayel, allora Presidente del Libano, pare ormai assodato che ci fossero loro. Per non parlare dell’intelligence saudita.

    Furono gli agenti segreti di Riad ad uccidere e fare a pezzi Jamal Khashoggi, un giornalista critico verso il regime di Mohammad bin Salman, quello che, per intenderci, Renzi, al contrario, reputa un esempio. In Italia i servizi segreti deviati hanno brigato con la mafia, i neofascisti, le agenzie di intelligence straniere. Sono stati i meri esecutori (dietro input politico, ovviamente) della strategia della tensione. Questa è storia e siamo liberi di indignarci di fronti a tali indecenze. Ma non possiamo stupirci. Così operano i servizi segreti o gran parte di essi.

    Al contrario è la stampa che insabbiando verità, oscurando notizie scomode, tacendo di fronte alle barbarie dei giganti della terra e prostrandosi davanti ai potenti, ha tradito il compito che i cittadini di tutto il mondo le hanno affidato. Sono i giornalisti pavidi, gli editorialisti di regime, i direttori al soldo dell’establishment, gli assassini di Julian, morto, per adesso, di solo di morte civile. Più della CIA, del governo americano, dei soldati USA finiti nell’occhio del ciclone dopo che WikiLeaks ebbe il coraggio di pubblicare “collateral murder”, il video che Chelsea Manning consegnò ad Assange e che mostra la strage di civili avvenuta a Baghdad nel luglio del 2007.

    L’Editto bulgaro è stato deprecabile. Tuttavia Biagi, Santoro e Luttazzi non rischiavano, grazie a Dio, la vita. Assange sì. Ed il bello è che l’editto che potrebbe ucciderlo è stato controfirmato nelle redazioni di quei giornali ormai luogo di conformismo, codardia, meschinità e difesa esclusiva delle verità comode. Assange è sotto processo ma dietro il banco degli imputati dovrebbe finirci la sedicente stampa libera, quella che libera non è. Quella che oggi dovrebbe scioperare in massa per difendere un eroe della libertà come Assange. Sono i suoi “colleghi” silenti a meritare un processo con l’accusa di alto tradimento ai lettori. Si tratterebbe di un processo legato sì al futuro di Julian ma soprattutto al futuro del mondo.

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