La vittoria di Riad per l’Expo 2030 è un tassello importante per la costruzione della visione saudita da qui ai prossimi anni: il “Rinascimento saudita”, cosiddetto anche da “illustri” cittadini di Firenze, che alle bellezze lasciate in dote da Brunelleschi e altri preferiscono i petroldollari di Bin Salman.
Il Paese del Golfo, guidato dal giovane principe ereditario, ha necessità di individuare nuove forme di business per far fronte alle sempre più pressanti politiche di decarbonizzazione e alle non infinite riserve petrolifere.
L’ambizione di Mbs, uno degli acronimi destinati a stare sempre più sulla bocca di tutti, non si limita tuttavia alle pur importanti ragioni economiche. Il principe vuole dettare la linea, influenzare i grandi attori globali soprattutto occidentali (ormai sempre più deboli), per piegarli ai suoi voleri.
Per fare ciò, ha attuato una politica di soft power probabilmente senza precedenti nella storia recente.
In questo quadro, la candidatura di Roma aveva poche chance. Tutti lo sapevano, anche se le reali dimensioni della forza (prepotenza) saudita si sono disvelate soltanto al momento dell’esito del voto.
La candidatura di Riad nasce da lontano, come meta dell’immaginifico programma “Vision 2030” lanciato nel 2016.
Quella di Roma nasce per volere di un governo, il Conte II, e di una sindaca, Virginia Raggi, arrivati logorati alla scelta (per ragioni non solo loro). Due premier e un sindaco dopo (Draghi, Meloni e Gualtieri) oramai i giochi erano fatti. Non è bastato l’impegno del sindaco e del comitato, guidato da un senior ambassador come Giampiero Massolo, le cui doti sono universalmente apprezzate.
È mancata, sicuramente, la coesione tra tutte le energie del Paese. Governo centrale, amministrazioni locali, imprenditori hanno lavorato (chi più, chi meno) ma non abbastanza per sovvertire un pronostico altamente sfavorevole.
Sono state decisive, inoltre, le crepe che si sono aperte nel mondo occidentale. Prima di tutto in Europa, dove la Francia ha annunciato da subito il voto per Riad (del resto quello transalpino è stato il primo Paese a strizzare l’occhio agli Stati arabi, basti pensare alla clamorosa assegnazione del mondiale al Qatar voluta dal duo Sarkozy-Platini e su cui è in corso un’indagine).
Oltreché in Europa, i sauditi hanno trovato terreno fertile proprio in “trasferta”, sul campo del maggiore competitor.
Quando uno dei principali promotori della bontà dell’azione “riformatrice” di Bin Salman è un ex premier italiano appare difficile raccontare al mondo che la candidatura di Roma va scelta perché esalta i valori di inclusione e giustizia sociale europei.
Quando al Parlamento europeo sono riusciti a infiltrarsi interessi opachi di un altro Paese del Golfo.
Quando nello stesso giorno in cui Roma veniva surclassata da Riad, il ministro Urso era nella capitale saudita a stringere mani e accordi commerciali.
Quando la squadra di calcio che porta il nome e i colori della Città eterna si trova costretta, per sopravvivere, a scrivere il nome di un’altra capitale in competizione sulle proprie maglie.
Quando né il presidente della Regione, né la premier (romana) scelgono di mettere la faccia su una probabile sconfitta.
Tutte quante ipocrisie che, follow the money, stanno riportando l’Europa nel Medioevo.
Un primo passo concreto potrebbe essere questo: il Parlamento approvi subito una legge che impedisca ai nostri deputati e senatori di ricoprire cariche di qualsiasi genere per conto di Paesi stranieri o che (vedi il caso Gasparri) per aziende straniere afferiscano materiale sensibile per la sicurezza nazionale. Se non ora, che ci sono i patrioti al comando, quando?
Anche su questo si misurerà l’autorevolezza del nostro Paese nei prossimi anni.