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    L’antisemitismo e il peso delle parole: effetto collaterale della guerra a Gaza (di S. Mentana)

    Credit: AP Photo

    Da più parti gli ebrei in quanto tali sono stati considerati corresponsabili delle azioni belliche israeliane ma non hanno il dovere di discolparsi da ciò che fa Tel Aviv

    Di Stefano Mentana
    Pubblicato il 11 Lug. 2024 alle 14:47 Aggiornato il 11 Lug. 2024 alle 19:05

    C’è una parola che speravamo vedere relegata al passato e che, purtroppo, in questo momento storico è particolarmente presente: quella parola è antisemitismo. Odio e pregiudizi nei confronti degli ebrei sono qualcosa che con matrici differenti accompagna la storia da secoli e colpisce un pezzo di popolazione che, tranne rare eccezioni, si è sempre trovata a essere minoranza e a dover vivere con una vera e propria necessità di sopravvivenza.

    Oggi, gli occhi del mondo intero guardano al Medio Oriente, al dramma in corso a Gaza, e al fianco delle critiche a Israele per il modo in cui sta conducendo questa guerra, per l’elevato numero di civili morti e per le numerose dichiarazioni di stampo estremista arrivate da partner di governo di Netanyahu, si è aperto un vaso di Pandora di azioni ostili rivolte in generale alla popolazione di religione ebraica. I dati a riguardo parlano chiaro: in tutto il mondo i casi di antisemitismo sono aumentati notevolmente. In Italia sono passati dai 241 del 2022 ai 454 del 2023, negli Stati Uniti dai 3.697 ai 7.523. Il rabbino della Grande Sinagoga di Parigi Moshe Sebbag ha addirittura detto che oggi «non c’è futuro per gli ebrei in Francia».

    Il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, intervistato da La Stampa ha individuato diverse forme di antisemitismo presenti in Italia, a dimostrazione di quanto variegato sia il fenomeno, fatto che ha contribuito a renderlo a tratti incontrollabile. Da più parti è sembrato vedere gli ebrei in quanto tali corresponsabili delle azioni belliche israeliane a Gaza, al punto che persino il Giorno della Memoria, in cui si ricorda il dramma dell’Olocausto, è divenuto quest’anno terreno di scontro. Lo ha spiegato Liliana Segre, che la Shoa l’ha vissuta in prima persona: mischiare quella giornata a quanto avviene a Gaza è un errore. Così come gli ebrei non hanno un dovere in quanto tali di discolparsi delle azioni di Israele.

    Sempre Segre ha messo in luce la facilità con cui si usa la parola genocidio, uno dei crimini più infami esistenti, rischiando di svuotarla del significato originale. Nella società rapida e manichea di oggi non è facile chiarire questo punto, col rischio che negare di essere di fronte a un genocidio rappresenti non essere davanti a niente di grave. Quanto succede a Gaza è gravissimo e ogni vita persa è una tragedia, non una statistica. Anche le parole però sono importanti. Si usa con leggerezza la parola “antisionista” per criticare l’operato israeliano, rischiando di sdoganare un altro fraintendimento: essere antisionisti significa mettere in discussione la legittimità dell’esistenza dello Stato di Israele (con tutto ciò che comporta), non essere oppositori di Netanyahu. Non sono leggerezze grammaticali: anche per come si usano le parole Roberto Cenati ha lasciato la guida dell’Anpi milanese e Daniele Nahum ha lasciato il Pd.

    Non sempre ci ricordiamo una cosa. Gli ebrei sono circa venti milioni in tutto il mondo e circa 30mila in Italia. Pochissimi. Intorno alla loro storia e cultura, forse, si conosce soprattutto il patrimonio comune col cristianesimo e il dramma dell’Olocausto. Si faccia più informazione, si mettano più punti fermi, o altrimenti anche dell’antisemitismo non capiremo più la gravità.

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