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    Il razzismo elitista di Agnelli: deve vincere solo chi ha titoli e soldi, non chi ha meriti come l’Atalanta

    Di Luca Telese
    Pubblicato il 6 Mar. 2020 alle 08:35 Aggiornato il 6 Mar. 2020 alle 08:53

    L’ha detta grossa, regalandoci un altro mirabile esempio di antisportività juventina, un caso di scuola di razzismo calcistico. Infatti il presidente della Juve Andrea Agnelli, parlando del futuro delle Coppe europee al Business of Football Summit ieri ha detto: “È giusto che una squadra come l’Atalanta, senza storia internazionale ma con una grande prestazione sportiva abbia avuto accesso diretto alla massima competizione europea per club?”. Credevo che la risposta fosse automatica e scontata, e che dovesse essere senza dubbio “sì”. Perché non dovrebbe essere giusta nello sport la prima regola della vita? Come si può sostenere che tutti non abbiano diritto ad ottenere quello che si conquistano con le proprie mani sul campo? E che lo fanno – per giunta – con degli indiscussi meriti sportivi?

    Ma dimenticavo che quando parla un dirigente bianconero anche i correttori automatici si mettono sugli attenti, e molti Soloni rinunciano a proferire parola. Come si potrebbe accettare l’idea che l’Atalanta, o un’altra squadra, non abbiamo diritto di vincere o perdere al pari di un’altra squadra? Mi sbagliavo, nulla è scontato, purtroppo. Così il ragionamento folle e classista di Agnelli (jr.) è stato addirittura preso sul serio: “Si può discutere – spiega infatti Andrea Agnelli – sul fatto che solo perché sei in un grande paese devi avere accesso automatico alle competizioni. Ho grande rispetto per quello che sta facendo l’Atalanta, ma senza storia internazionale e con una grande prestazione sportiva ha avuto accesso diretto alla massima competizione europea per club. È giusto o no? Poi penso alla Roma, che ha contribuito negli ultimi anni a mantenere il ranking dell’Italia, ha avuto una brutta stagione ed è fuori, con quello che ne consegue a livello economico. Bisogna anche proteggere gli investimenti e i costi”.

     

     

    Quindi, riepilogando: nel nome della sacra parola d’ordine “proteggere gli investimenti”, se una squadra meno ricca si conquista sul campo un traguardo importante, ad esempio la partecipazione ad un grande e remunerativa competizione europea, dovrebbe intervenire un criterio superiore che rimettere le cose a posto, che retrocede le tante “Atalanta”, escludendole da quello che si sono conquistato, e che restituisce la qualificazione anche a chi non ci è riuscito giocando, ma se lo merita in virtù del suo albo e della sua storia. Agnelli ipotizza anche come potrebbe funzionare questo meccanismo: un’idea sulla falsariga di acini meccanismo del basket, che permette alle squadre che detengono un diritto pluriennale di poterne usufruire raggiungendo un risultato minimo: “Mantenere il proprio livello internazionale con una determinata posizione minima in classifica”.

    Pensato applicato alla vita: c’è un concorso pubblico, un signor nessuno vince un posto di prestigio, arriva Andrea Agnelli e dice: “Ma chi ti conosce a te? Quanto sei costato in scuole alla tua famiglia?”. E il posto viene restituito ad un figlio di papà, che magari può vantare studi esclusivi in università private, e tolto al “signor nessuno” che aveva il grave torto di aver superato il concorso. Sarebbe un caso da 118. È grave, ovviamente, ma è più grave di quello che si pensi: il calcio è sempre il terreno di sperimentazione primario ideologico, nel nostro paese, la madre di tutte le battaglie che poi si trasferiscono agli altri settori, e l’elogio dell’antisportività di classe è un virus pericoloso: creare una graduatoria avulsa nella vita, garantire una rendita a chi è ricco e blasonato – solo – perché è ricco e blasonato, stravolgere a tavolino i verdetti sul campo. In tempi di virus non bisogna abbassare la guardia contro il virus più pericoloso. Il razzismo elitista a strisce bianche e nere.

     

     

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