Se cade un governo gialloverde, nulla, ma proprio nulla – sul piano delle regole – impedisce che ne nasca uno giallorosso. In una democrazia parlamentare non esiste nessun obbligo di ritorno alle urne, se per qualsiasi motivo cade una maggioranza che è nata in Parlamento. Cosi come da un accordo politico è nata una maggioranza, quella gialloverde, ne può nascere un’altra, quella giallorossa, ma anche quella viola, quella arcobaleno, quella istituzionale, quella di scopo. E se cadesse questo governo – in una legislatura giovane – ne potrebbe nascere anche un altro. Qualunque maggioranza.
Matteo Salvini dal suo punto di vista fa bene a tirare la volata alla sua richiesta di voto anticipato. Gode in questo momento, secondo quanto certificato dal voto delle europee, di un pacchetto solido, di una minoranza di massa molto agguerrita, quadrata, una macchina da guerra per correre verso un tentativo di sfondamento in una guerra-lampo. Ma non va mai dimenticato che attualmente ha meno del 17 per cento del Parlamento. E che mai una maggioranza conquistata nel voto europeo si è riverberata nel voto politico: non accadde al PCI che nel 1984 realizzò il leggendario “sorpasso”, non è successo a Silvio Berlusconi nel 1994, non è accaduto in tempi recenti a Matteo Renzi, con il suo famoso 40 per cento, poi dissolto nell’impresa referendaria.
Quella della Lega, dunque, è una minoranza forte, agguerrita ed omogenea. A cui si può aggiungere il voto di Giorgia Meloni (che però Salvini, malgrado l’afflato entusiasta dei suoi elettori, che sognano una alleanza sovranista, continua a soffrire). E oggi questa alemanna vale comunque non più del 20 per cento del Parlamento. Salvini quindi sta cavalcando con grande capacità da illusionista il suo momento magico, ma non ha quindi nessuna voce in capitolo nel decidere chi sarà l’erede del governo di Giuseppe Conte e nemmeno quella di determinare con quali modalità si chiuderà la crisi.
Accadde a Silvio Berlusconi dopo la caduta del suo primo governo di reclamare il voto in nome della volontà popolare: come andò a finire è noto. Rientrò a Palazzo Chigi solo dopo la lunga “traversata del deserto” nel 2001. Erano passati sei anni.
In questo momento si riproduce una situazione incredibile, e per capire lo scenario ritorna la metafora di M., il libro di profetico di Antonio Scurati: è efficace l’idea di rileggere il 1919 come se ci parlasse del 2019. Oggi come allora c’è una grande rabbia nell’aria, una grande febbre, c’è una grande attività organizzata, dell’area salvinian-populista/meloniana, ma dall’altra parte c’è una maggioranza degli italiani che non sono d’accordo con loro.
E questa maggioranza degli italiani è più debole, però, perché sono divisi i popoli che la compongono. Solo questo potrebbe far vincere Salvini e la Meloni, perché le forze che rappresentano queste identità sono divise, esattamente come erano in conflitto tra di loro i socialisti, i comunisti e i cattolici del 1919, per esempio a Weimar. Mentre le loro fazioni si sparavano addosso, mentre gli squadristi assaltavano i Palazzo del potere e piegavano le istituzioni ottocentesche – Hindeeburg e Vittorio Emanuele – alla loro volontà. Gli Dei del moderno del populismo cavalcano nelle praterie di queste divisioni incomprensibili per qualsiasi persona dotata di buonsenso e normali capacità di analisi.
La seconda domanda, dunque, è: che partita si sta giocando a sinistra? Nel Pd in questo momento si sta realizzando una dialettica folle perché Nicola Zingaretti che è l’unico a sinistra che in questi anni è riuscito a governare con i Cinquestelle oggi dovrebbe ritrovarsi in estasi, ed essere il primo sostenitore di un accordo con loro, favorevole all’ipotesi di un’alleanza civile che tenga insieme queste due anime che sono in qualche modo imparentate tra di loro, e forse è proprio per questo che si combattono come fratelli-coltelli.
I Cinquestelle – semplificando brutalmente – hanno ereditato alcune grandi questioni ideali abbandonate dalla sinistra di governo, l’ambientalismo, le grandi opzioni etiche, la questione morale, mentre dall’altra parte il Pd ha mantenuto la grande capacità del governo e lo spirito riformista. Adesso questa grande crisi può produrre un effetto positivo e costringere queste due culture politiche che non si sono mai parlate (per leaderismi e squallide beghe di bottega) a dialogare. Il messaggio di Belle Grillo di sabato rompe una lunga stagione di inimicizia e diventa pre-condizione perciò dialogo.
Ed è interessante che questo passo costi a Di Maio tanto quanto costa al gruppo dirigente del Pd. È sorprendente che Renzi che fino a ieri era il principale nemico di questa alleanza e che aveva fatto una battaglia frontale un anno fa per tenere il Pd fuori da qualunque dialogo con i demoniaci grillini, oggi sia l’uomo che vuole questa alleanza. La prospetta come un patto tattico, e questo sicuramente è un punto di debolezza
Ma tanti hanno lavorato nel mondo democratico per questo accordo. Ne parla da mesi, come un profeta inascoltato, Massimo Cacciari. Ci ha lavorato, sul piano politico Dario Franceschini, ne ha fatto la sua bandiera Massimiliano Smeriglio (che è il vice di Zingaretti) e che da due anni sostiene che questa sia l’unica via per uscire dalla crisi della sinistra.
E allora, a questo punto, anche ascoltando i grandi vecchi, come Emanuele Macaluso, e Luciano Canfora, o Rino Formica, anche ascoltando le anime della sinistra che hanno memoria lunga, se il Pd vuole davvero costruire una nuova alleanza e tornare competitivo, ha davanti a se questa unica strada. Così come i grillini, non ci sono alternative per loro.
Bere l’amaro calice fino in fondo, abbattere i mutui, sottoscrivere un accordo politico radicale, progressista e riformista: hanno quattro anni davanti a sé, una legislatura giovane per far vedere che cosa possono fare insieme. Se non ci riescono dovranno sparire, se lo faranno male spariranno tra quattro anni, se vanno al voto ora spariranno lo stesso. Subito.