Chi ha il pane non ha i denti. E viceversa. La campagna degli assurdi e degli errori si chiuderà con una sconfitta e un paradosso che dovrebbero servire come lezione per la sinistra di domani, qualunque dovesse essere il suo futuro (e il suo leader). Il paradosso è che il “campo largo” in questi giorni continua a salire nei sondaggi, ma la frammentazione del fronte progressista in tre diverse liste rende questa performance vana, anzi dannosa. Infatti, se il centrodestra sfiora il 48%, e tutti gli altri concorrenti messi insieme hanno lo stesso risultato (se non di più), il 90% dei collegi uninominali sarà comunque perso. E questo in virtù di un altro esito che nessuno poteva immaginare: il centrosinistra ha una coalizione ma non ha un leader, mentre il Movimento Cinque Stelle ha un leader, ma non una coalizione.
Malgrado un anno e mezzo di lavoro e di governo comune, infatti, un veto di Enrico Letta ha chiuso a Conte le porte dell’alleanza: «Non posso allearmi con chi ha fatto cadere Draghi». E la posizione, che a molti sembrava virtuosa, è diventata un harakiri anti-politico: un baratto in cui si è sacrificato il futuro dei prossimi cinque anni. Il “piano B” di Letta era quello di correre insieme a Carlo Calenda e alla sua Azione con una coalizione ispirata dall’agenda Draghi, ma il folle sistema elettorale con cui andiamo a votare (per la seconda volta) ha indotto un effetto collaterale. E cioè che a Calenda non è sembrato drammatico rompere il patto che aveva appena siglato, perché il fatto di rinunciare al Movimento aveva già fatto perdere competitività all’alleanza in almeno cento collegi (soprattutto al Sud). E perdere competitività ha ridotto, di conseguenza, la dote di collegi che il Pd poteva offrire di spartirsi con i suoi alleati. Calenda ha pensato che avere non più di dieci eletti in più o in meno, in fondo, non faceva una grande differenza: tanto valeva correre da solo, ma avendo la possibilità di sfruttare il potenziale attrattivo delle due ex ministre di Forza Italia. Per questo ragionamento contorto, ma lineare, il leader di Azione si è comportato come se stesse parafrasando una delle più belle battute di Groucho Marx: «Non farei mai parte di un club che avesse uno come me tra i suoi soci». E se ne è andato.
Certo, anche il M5S ha fatto errori madornali: il più grande è aver imposto (sotto la leadership di Di Maio e di Crimi) il taglio dei parlamentari. In un Paese complesso come l’Italia questo abbatte la capacità di rappresentanza della politica, e quindi la forza stessa delle istituzioni democratiche. Ma non solo: per via della morfologia elettorale, il taglio ha creato degli enormi collegi (al Senato ce ne sono addirittura da un milione di elettori) in cui il centrodestra unito diventa più performante. La forza della sinistra nei centri storici e nelle sue roccaforti dell’Italia centrale è stata annacquata dagli inserimenti delle aree periferiche. E al Sud si è creato un ascensore letale: ogni voto in più a Conte (o al terzo polo) rende più lontano il centrosinistra dalla destra.
Chissà se a Letta sono ronzate le orecchie quando Giorgia Meloni, in pieno agosto, nel suo secondo comizio, ha gridato da un palco: «Noi siamo rimasti uniti perché la prima regola del centrodestra è: battere la sinistra. La nostra priorità – ha spiegato la leader di Fratelli d’Italia – era, è, e rimane: vincere, per mandare a casa la sinistra». Bastava copiarla. Lo imponeva la logica, ma soprattutto questa legge elettorale. Eppure, incredibilmente, nella direzione decisiva nessuno nel Pd (escluso Goffredo Bettini e forse in parte Andrea Orlando) ha avuto la forza, o il coraggio, di spiegare che la mossa di scaricare il M5S era suicida. Nessuno ha avuto l’onestà di spiegare agli elettori quali fossero le conseguenze. Nessuno ha pensato che era assurdo estromettere Conte per un voto di non fiducia, ma tenere nell’alleanza Fratoianni, che aveva votato contro Draghi ben 55 volte. Tutti hanno sottovalutato – altro paradosso – la coerenza di Letta: «Facciamo passare un po’ di tempo – mi disse in quelle ore un ex ministro –, cambierà idea». Ma il segretario non si è più mosso, e le liste sono state chiuse.
È giusto dire, tuttavia, che il gruppo dirigente del Pd ha accettato questa decisione con fatalismo e pigrizia. La destra interna, forse, ha persino festeggiato. C’era in questo errore la stessa spavalda grandeur che portò il gruppo dirigente a seguire Renzi (ad esempio sul Rosatellum). E poi i dirigenti del Pd, soprattutto dopo le amministrative, al contrario dei suoi elettori, sottovalutava Conte: aveva visto i dati delle elezioni comunali e considerava il Movimento in via di estinzione, sopravvalutava la popolarità di Draghi. Anche i dirigenti più a sinistra, si erano convinti che Conte fosse come una di quelle vecchie amanti che quando si incontrando per strada inducono alla malinconia: bellezze sfiorite e rimpianti. Questo sentimento ha prodotto l’errore peggiore: favorire la scissione di Di Maio e farne un alleato prediletto. Oggi i rapporti di forza tra i due movimenti spiegano che abbaglio sia stato. Per il M5S la scissione è stata un atto di guerra. Per i suoi elettori un tradimento. Per il Pd, invece, Impegno Civico è diventato in poche ore un peso, un partner che ti zavorra invece di aiutarti.
Infine, ecco l’ultima follia. Il centrosinistra, dopo la rottura con Calenda, non ha scelto un candidato ufficiale a Palazzo Chigi. Persino Letta non si considera tale: «Dirlo cozzerebbe con le prerogative di Mattarella. Il nostro è un sistema parlamentare». E invece Conte ha rivelato in queste ore di essere efficace, soprattutto come front man. Capace di girare decine di video su tutto (memorabile quello con il caschetto giallo davanti al condominio ecologico). Altra curiosità: Tommaso Rodano su Il Fatto Quotidiano ha raccontato che il Pd raccoglie gli elettori più ricchi e il M5S i più poveri. Un’alleanza sinergica. Certo, i Cinque Stelle avrebbero perso dei voti rispetto alla corsa in solitario, ma avrebbero avuto come compensazione la leadership, esattamente come aveva immaginato Bettini. Ma la corsa in solitudine, somma di due errori, produce due effetti: una strage di eletti. Una perdita di credibilità. E la certezza che i due partiti – volenti o nolenti – se vogliono tornare a vincere, dovranno tornare insieme.