Per molti anni l’informazione della carta stampata è avvenuta dall’alto verso il basso. Un ristretto numero di giornali selezionava i fatti di giornata e informava il pubblico, offrendo una gerarchia delle notizie a seconda della loro importanza e dando una impronta che caratterizzava le rispettive linee editoriali. In altre parole imponeva l’agenda. Se il pubblico cercava l’informazione trovava (quasi solo) quella. Ed era sempre il pubblico che andava a ricercarla. Tutto ciò attribuiva alla stampa un’importanza e un potere senza pari.
Oggi invece non sembra più essere così: grazie al boom di internet e dei social network, e complice la perdita di potere e di influenza dei giornali tradizionali (che continuano pur sempre imperterriti nel loro intento di plasmare la stampa secondo propri interessi), l’informazione pare avvenire perlopiù dal basso verso l’alto. A selezionare le notizie di giornata e a informare il pubblico non sono più solamente un ristretto numero di giornali che impongono l’agenda. L’informazione è pressoché infinita, l’offerta enormemente più ampia e frammentata. Non è più il pubblico che ricerca l’informazione: è la stampa che va alla ricerca del suo pubblico.
Nulla di male se un processo top-down si trasforma in bottom-up. Il punto è a quale costo tutto questo stia accadendo. Perché a imporre l’agenda e i temi di pubblico dominio, a determinare quello che leggiamo, nell’era della iper-informazione è anche un algoritmo. Così tutto quello che diventa virale dal basso, e non più imposto dall’alto, alimenta una parte significativa dell’informazione digitale, che oggi viaggia soprattutto sui social (dove molti italiani preferiscono informarsi). Restituendo al pubblico il giusto peso, da un lato, ma alterando l’importanza e influenzando la gerarchia delle notizie, dall’altro. Un terremoto nel sistema mediatico lento e graduale ma inesorabile. Con alcuni importanti pregi e difetti. Il principale (fra i meriti) è forse questo: i temi di cui oggi dibattiamo grazie a questa apertura culturale e tecnologica senza precedenti sono di gran lunga più numerosi – e talvolta anche molto più interessanti – rispetto al passato. Argomenti lasciati per troppo tempo sotto traccia che incontrano l’interesse di molti e nuovi lettori i quali, in assenza di una simil rivoluzione, sarebbero tagliati fuori da una dieta mediale di vecchio stampo. Dibattiti, infine, che hanno avuto il merito di rompere tabù consolidatisi nel tempo, costringendo così i vecchi “oligarchi dell’informazione” a parlarne anch’essi e a inseguirli.
Fin qui tutto bene. Ma la crescente verticalizzazione dell’informazione ha portato anche alla necessità di canalizzare questa incontrollabile marea di temi e nozioni che, per la prima volta, viene diffusa 1) senza confini (quello che scrivo ad Aosta può arrivare ovunque ed essere letto immediatamente all’opposto capo del mondo) e supera i tradizionali limiti di 2) spazio (le pagine prestabilite di un giornale diventano invece infinite sul web) e 3) di tempo (la periodicità prestabilita con cui un giornale pubblica le notizie cessa di esistere sulla rete).
Un’evoluzione senza precedenti, certo, ma se le notizie che ci propina la rete H24 sono gerarchizzate perlopiù da un algoritmo il cui funzionamento è secretato dalle Big Tech che lo hanno sviluppato dovremmo preoccuparci. Ed ecco il perché: in primo luogo l’algoritmo di per sé determina il successo o l’insuccesso di chi veicola le informazioni. Questo fa sì che se un argomento “funziona”, in termini di audience raggiunte e di ricavi pubblicitari raccolti, quell’argomento diventerà senz’altro dominante, come con la pandemia e la guerra.
Il kingmaker è l’algoritmo, le cui diaboliche logiche si basano in larga parte sulle interazioni delle grandi masse e sul guadagno che è possibile trarne, ma così l’informazione viene sacrificata e le redazioni rispondono a logiche ben diverse da quelle di un giornale. In secondo luogo perché l’algoritmo, per definizione, discrimina: viviseziona i nostri interessi e mostrerà in evidenza sotto i nostri occhi, sempre più, questo o quel tema, limitando tuttavia la nostra conoscenza di altri argomenti ugualmente importanti, di cui rischiamo di rimanere disinformati.
Terzo: l’algoritmo insegue e rinvigorisce le nostre convinzioni, senza metterle mai in dubbio, rafforzando l’idea che se nella mia cerchia di amici virtuali quella tal verità è anche da essi validata allora sarà senza dubbio inconfutabile. Violando però uno dei principi stessi dell’informazione, che non serve ad accrescere la stima di noi stessi ma a informare tenendo conto delle complessità di una vicenda e indurre a ulteriori domande. Il filosofo Umberto Galimberti, in un’intervista a Simonetta Sciandivasci, ha recentemente affermato: «Vedo che le persone soffrono e, quando le ascolto, mi dicono tutte la stessa cosa: si percepiscono come funzionari di apparato… Come noi, che infatti veniamo continuamente sondati da algoritmi che non ci dicono chi siamo, ma a cosa serviamo. Guardiamo gli altri e noi stessi solo sotto il profilo dell’utilità, ed è così che l’uomo scompare».
La morale, dunque, è questa: viva l’informazione digitale con le sue molteplici opportunità, ma non fatevi narcotizzare dall’algoritmo, restate vigili e coscienti, informatevi in modo critico anche tramite una stampa (possibilmente libera) che non segue unicamente le logiche di un computer.
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