L’unico degli intervistati che non ho avuto il piacere di conoscere è Miltos Manetas, un artista greco che è stato definito una sorta di El Greco dei geeks, degli smanettoni informatici.
Questo perché Miltos crea opere d’arte su internet, manipolando video di Super Mario o creando appositi account che celebrano Andy Warhol o Jackson Pollock.
Se dipinge su tela, rappresenta figure come joystick, computer, console per videogiochi, cavi.
La connessione per un ateo come Miltos è l’unica religione a cui obbedire.
Mi dicono che quando è nata sua figlia Alpha (già tanto che non l’abbia chiamata bit), Miltos ha proiettato per tutta la notte la sua immagine sull’edificio del Ministero delle Finanze a Roma, generando stupore e forse qualche ingorgo.
La storia del suo incontro rocambolesco con Enzo è raccontato in un testo che mi è arrivato magicamente alle quattro di mattina dalla Colombia.
Dalla mostra al MAXXI in cui espongo un mio lavoro, finisco nelle Marche, vicino a Recanati, dove è nato il grande poeta italiano Giacomo Leopardi.
Soggiorno in un bellissimo monastero convertito in albergo in cima al mitico Monte Conero, ospite di un imprenditore della zona interessato all’arte sperimentale su internet che ha promesso di portare in albergo dei serpenti vivi: l’idea è di filmare i serpenti e farne una versione animata su un sito, ma il progetto è destinato a non realizzarsi.
Decido una mattina di fare una passeggiata da solo nella bellissima natura che ci circonda e, dopo aver intrapreso un sentiero proibito per evitare una famiglia di turisti austriaci, mi trovo dopo un’ora sulle pericolose rocce della spiaggia le Due Sorelle. Scelgo malauguratamente di scendere sulle rocce per arrivare giù in spiaggia.
Prima di venire in Italia, avevo trascorso parecchi mesi nelle Foreste Pluviali della Colombia, sulle montagne della Bolivia e del Perù, nel deserto di Israele e avendo nel frattempo coltivato l’illusione che la Natura mi fosse amica gridai dall’alto delle rocce: «Ecco la prova che Herzog sbagliava: la Natura non vuole ucciderci».
Herzog chiaramente aveva ragione perché persi subito il controllo. Iniziai a scivolare via molto velocemente, pregavo dentro di me «Oh mio Dio!» e mi vergognavo di dover chiedere soccorso a un Essere in cui non credevo, e così cancellai le mie preghiere.
Fu una discesa velocissima e in preda alla paura feci moltissime riflessioni: «Il tempo sta cambiando, a breve comincerà a piovere», «Che bella la Natura, mi mancherà», «Che peccato morire proprio adesso che ho scoperto la Natura».
Alla fine della roccia c’era un albero e lì finii miracolosamente con la schiena massacrata ma ancora vivo, visto che oggi posso raccontare questa storia.
Dopo l’impatto con l’albero persi conoscenza, ma una pioggia fitta mi svegliò. Sempre più eccitato di essere sopravvissuto, avvertii in cima all’albero la presenza di uno spirito nativo, strano ma allo stesso tempo amico, che mi diede la forza di alzarmi e di scendere come una ballerina verso la spiaggia. Lì fui assistito da due giovani italiani con addosso una bandiera del Brasile.
Il mese dopo mi dimettono dall’ospedale di Loreto e mi sistemano nella Casa Gialla, una proprietà sita nel Conero, e qui mi rendo conto che questo spirito nativo si materializza nella persona di un individuo con uno strano cognome e un nome cinematografico: Cucchi, Enzo Cucchi.
Qualche decennio prima un curatore italiano, il più dotato di intuito della sua generazione, aveva messo insieme un movimento che comprendeva diversi pittori e scultori italiani ma la cui punta di diamante era proprio lui: Enzo Cucchi, la Transavanguardia per eccellenza.
L’intuizione di Achille Bonito Oliva fu presto risucchiata dal vortice del denaro ma Enzo mantenne la schiena dritta. Tornò a Roma e alla sua amata Ancona e quando dilagarono computer e mail decise di restare sconnesso, come il suo amico Luigi Ontani e pochi altri, Santo e Patrono dell’unica connessione possibile, quella di chi comunica con gli occhi dell’anima.
Pensare che Enzo sia solo Umano è un errore comprensibile: in fin dei conti, come tutti noi, Enzo è fatto di carne e ossa, con una lingua e un database mnemonico, umori e silenzi che si alternano. E anche lui farà ritorno al nulla da cui noi tutti proveniamo.
Ma diversamente da noi Enzo è anche un luogo: basta fare un salto nel paese in cui è nato per rendersi conto che i suoi tratti, il suo carattere e la sua arte corrispondono perfettamente al paesaggio e alle caratteristiche della regione. Sono stato a Morro d’Alba con Cucchi nell’estate del 2010, ho conosciuto suo padre e sua madre, ho incontrato i suoi amici: tutto aveva un senso, con la stessa perfezione con cui i miti si incastrano fra di loro.
Un mio caro amico che in passato era stato nella Casa Gialla sul Conero mi aveva dato il numero di Enzo. Dopo la caduta sul Monte Conero, decisi di chiamarlo e lui rispose subito: «Stai lì, non ti muovere». Due giorni dopo bussa alla parta Enzo, con due amici galleristi e Giancarlo Baldoni, il suo straordinario sarto anconetano. «Ho pensato di portarti un regalo, eccoti Giancarlo. È un uomo speciale, ti rivestirà alla grande, ne hai bisogno dopo quello che ti è successo».
Quello stesso giorno mi propose di fare con lui la mostra al Fortino Napoleonico, un prestigioso albergo situato sulla costa. La mostra Cucchi invita Manetas venne inaugurata l’ultima settimana di luglio e arrivai giusto in tempo per vedere Enzo da un lato e i giornalisti che sembravano dei cani bastonati dall’altro: «Sono scioccati perché ho appena mandato a quel paese il sindaco e gli ho proibito di venire alla nostra mostra».
Scoprii successivamente che lo sfortunato sindaco non aveva difeso Enzo tutte le volte che era stato fermato dai carabinieri mentre si toglieva mutande e pantaloni in mezzo all’autostrada per fare il cambio costume. Quale posto migliore che un’autostrada per cambiarsi d’abito per una divinità come Enzo Cucchi? Alcune persone proprio non ci arrivano.
Rividi Enzo un mese dopo nel suo studio a Roma. Avevo appena ammirato le rovine di Ostia. «Roma non è una città», mi urlò Enzo dalla veranda del suo studio mentre ammiravo il Lenin che Warhol gli aveva regalato in cambio di un suo disegno, «Roma è una foresta, una foresta di città. Vecchie città si mischiano a città estinte – come Cinecittà – e nuove città convivono con quelle vecchie in un’esistenza parallela, ieri, oggi, domani, per sempre».
Qualche mese dopo a Bogotà, la donna che poi divenne madre di mia figlia, cominciò ad insistere che dovevamo trasferirci «in una città in cui avviene l’Arte». New York, Berlino, Londra non mi convincevano, troppa Arte per i miei gusti. Fu in quel momento che mi tornarono in mente le parole di Enzo e decisi di andare a vivere a Roma, l’unica città dell’Occidente che possa considerarsi una foresta.
Nacque nostra figlia e cominciai a vivere nell’adorazione di sua madre che penso ancora sia una donna fantastica, piena di talento, anche artistico. In quel periodo di innamoramento, Enzo mi guardava con un misto di pietà e di compassione e continuava a ripetermi: «Le donne non sono creative, non nel modo in cui lo siamo noi. Non possono essere artiste perché devono invece procreare». Trovavo queste osservazioni di Enzo leggermente esagerate, ma quando la bella colombiana mi lasciò dicendo che al mondo non c’è spazio per due Manetas, iniziai a pensare che forse Enzo aveva ragione. Le donne non sono individui come lo siamo noi maschi, sono piuttosto dei luoghi geografici.
In questo senso non dissimili da Enzo. Noi maschi invece siamo solo equazioni del Tempo, ci muoviamo, costruiamo, amministriamo come se non ci fosse più tempo, come se dovesse succedere tutto in questo istante e un minuto dopo è troppo tardi.
Questa è la ragione per cui la pittura è importante: perché sfugge al Tempo, un dipinto su tela ci mette 80 anni a seccarsi e durante quel periodo i colori cambiano di continuo, le forme si dissolvono, la pittura si trasforma.
Enzo Cucchi è uno dei pochi veri pittori rimasti oggi, ben visibile sulla mappa mondiale di Google Earth come lo sono i postmark che ci indicano i luoghi salienti. Elegante, sconnesso, a volte stancante, eternamente carismatico, ieri, oggi, domani, per sempre.
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Vita sconnessa di Enzo Cucchi di Carlos D’Ercole è un’indagine plurale sull’identità di un artista singolare, Enzo Cucchi, pittore solitario, inquadrato nel brand collettivo della Transavanguardia.
Il personaggio e l’opera si assomigliano fatalmente, nella loro gemella doppiezza: almeno dagli anni Ottanta, ci si è cominciati a domandare chi fosse quest’uomo, e come facesse a realizzare opere così uniche, ma anche come fosse possibile armonizzare in un solo individuo le sue dichiarazioni mirabili e le sue indifendibili provocazioni.
Carlos D’Ercole riesce a risolvere questi enigmi facendo sì parlare Enzo, ma soprattutto le persone che gli sono state vicine, tanto umanamente quanto professionalmente. Tra queste incontriamo galleristi, artisti, amici, collaboratori, che parlano per la prima volta del ruolo insostituibile che la biografia di Enzo svolge nello sviluppo del suo lavoro.
Fra i testimoni non ci sono critici e storici dell’arte, perché hanno già detto molto su di lui; forse troppo. E l’immagine che chiude il testo è dinamica, affascinante e poco chiara. Come Cucchi.
Incontri con Emilio Mazzoli, Francesco Clemente, Brunella Antomarini, Luigi Ontani, Joseph Helman, Miltos Manetas, Salvatore Lacagnina, Paul Maenz, Bernd Klüser, Mimmo Paladino, Jacqueline Burckhardt, Enzo Cucchi.
Edito da Quodlibet, 16 euro, su Amazon.
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