Scarsità di dati e statistiche, mancanza di politiche di prevenzione e assistenza, giustizia lenta e arretratezza culturale: sono questi gli elementi che emergono da una prima analisi sul modo di affrontare il fenomeno della violenza sulle donne in Italia.
TPI ha incontrato Vittoria Tola, responsabile nazionale di Udi, Unione Donne in Italia, e tra le promotrici della manifestazione indetta per il 26 novembre a Roma Non una di meno: una marcia organizzata a ridosso delle Giornata mondiale contro la violenza sulle donne che intende attirare l’attenzione su un fenomeno in crescita con numeri che il nostro paese non riesce a monitorare.
“Sono solo due le grandi ricerche portate avanti negli ultimi anni: una risale ai primi degli anni 2000 e fu condotta dal centro Istat grazie a un finanziamento di 3 milioni di euro erogato dal dipartimento per le Pari opportunità; un lavoro durato sei anni svolto tra molte difficoltà, nessuno aveva mai definito dei parametri per fare una ricerca di quel tipo. La seconda venne promossa dal governo Monti, con una raccolta dati ancora frammentaria”.
Tola continua a spiegare: “Non si riesce mai ad avere un quadro reale. Questo significa anche che c’è un’ingenuità o una non volontà di profilare una dimensione quantitativa e qualitativa della violenza in tutte le sue forme e ciò diventa un alibi per non adottare le misure adeguate in materia di prevenzione previste dagli accordi europei”.
La responsabile si riferisce alla Convenzione di Istanbul, ovvero al trattato stipulato tra i membri del Consiglio d’Europa, che si propone di prevenire la violenza, favorire la protezione delle vittime e impedire l’impunità dei colpevoli.
“Lo stato ha l’obbligo di prendere tutte le misure necessarie per proteggere le donne e risarcirle, nonché tutelare i figli aiutandoli a superare situazioni complesse. La scarsità di dati non può essere la scusa per giustificare le poche azioni del governo”.
L’articolo 66 della convenzione prevede l’istituzione di un gruppo di esperti indipendenti avente il compito di monitorarne l’attuazione delle norme previste in ogni paese aderente: questo gruppo è denominato Grevio, ovvero Group of experts on Action against Violence against Women and Domestic Violence.
Il Grevio ha il compito di vigilare e valutare, attraverso rapporti periodici forniti dagli stati, le misure adottate dalle parti contraenti ai fini dell’applicazione della convenzione.
Simona Lanzoni, vice presidente di Fondazione Pangea Onlus, nel 2015 è stata eletta a Strasburgo quale membro del Grevio.
In quanto attivista e cittadina italiana non può monitorare il nostro paese per questioni di incompatibilità, ma ha illustrato a TPI cosa prevede la convenzione e a che punto si trovi l’Italia.
La Convenzione di Istanbul
“Allo stato sottoscrivente vengono richieste politiche integrate in grado di far dialogare tra loro i vari settori coinvolti. Lo stato è responsabile dei ‘mezzi’ che mette a disposizione, ossia deve preparare quelle figure professionali che lavorano come operatori delle forze di polizia, dell’apparato giuridico, degli ospedali, dei servizi sociali e così via. Le condizioni di base devono essere poste dal governo affinché si possa uscire dalla violenza”.
L’Italia, come gli altri paesi membri, dovrà rispondere a un questionario elaborato dal Grevio che per la prima volta va a monitorare tutti gli stati aderenti interrogandoli sui diversi capitoli previsti dalla convenzione per avere un primo screening.
Il questionario esamina il paese su statistiche, politiche integrate, fondi messi a disposizione, formazione degli operatori pubblici, persecuzione e punizione degli autori dei maltrattamenti, prevenzione, protezione e azioni di compensazione che lo stato predispone per le vittime.
La compensazione riguarda il risarcimento economico e sociale delle donne vittime di violenza e per consentire di tornare a uno stile di vita normale. Purtroppo, oggi, abbiamo pochi esempi di questa pratica, ricordo ad esempio che una regione che si è attivata in questo senso è il Piemonte.
La situazione italiana
“A livello italiano mancano politiche integrate e armoniche, con una capacità di risposta al fenomeno della violenza che mostra marcate differenze a seconda delle regione presa in esame. Ci ritroviamo ancora nella situazione in cui una donna può dirsi più o meno fortunata in base alla regione in cui vive: c’è per esempio una differenza abissale tra i diritti e i servizi che sono garantiti un una regione come l’Emilia Romagna ed una come la Calabria. Ci vorrebbe una visione globale che contempli un’integrazione delle politiche tra i diversi livelli: stato, regioni, comuni; fin quando ciò non avverrà non si potranno dare risposte serie”.
La prevenzione riguarda anche e soprattutto la formazione del personale di assistenza: “Quali saranno nei prossimi dieci anni gli operatori pubblici che si occuperanno dei casi di violenza?”, si chiede Lanzoni. “Saranno i ragazzi che oggi studiano medicina, giurisprudenza o scienze della formazione; nessuno di loro viene formato sulla Convenzione di Istanbul e sul fenomeno della violenza. Stiamo preparando professionisti che ignorano cosa sia la questione di genere, l’uguaglianza di genere e quale risposta giuridica venga richiesta. Se non si preparano adesso quelli che saranno i futuri quadri o i futuri operatori, da qui a vent’anni non cambierà niente”.
Un esempio significativo della disomogeneità del nostro sistema di prevenzione può essere fornito da un aspetto caratterizzante l’apparato sanitario italiano: “Non ci sono linee guida omogenee che aiutino i diversi pronto soccorsi in Italia a diagnosticare e registrare le donne vittime di violenza in maniera simile, con la scheda di triage. Manca una definizione delle varie forme di violenza all’interno della scheda di triage del protocollo sanitario così come manca lo scambio di dati tra le strutture sanitarie: una donna ricoverata per violenze a breve distanza di tempo in due ospedali differenti non viene segnalata come caso a rischio, poiché manca il coordinamento e nessuno ha traccia di questi due ricoveri”.
Il processo di analisi promosso dal Consiglio europeo è ancora alle prime fasi: “Abbiamo iniziato a monitorare Monaco e Austria, si può dire che la Spagna storicamente abbia la migliore legge inclusiva integrata. Una grande legge sistemica venne approvata con il governo di Zapatero e adesso, nonostante la crisi economica e l’austerity stiano colpendo il paese, le politiche sono molto avanzate poiché vi è stata una grande rivoluzione in termini di mentalità. Il sistema integrato ha aiutato il paese a superare gli stereotipi di genere, ha velocizzati i tempi della giustizia con sentenze pronunciate entro un anno”.
L’Italia risponderà al questionario, ma il processo culturale è ancora molto lento e disomogeneo: “Bisognerebbe lavorare anche sui libri di scuola, sulle pubblicità sessiste, compiere una vera educazione sessuale e di genere, per dotare gli adolescenti degli strumenti necessari per riconoscere le situazioni”.
Maschile Plurale
La questione culturale è il nodo che lega Vittoria Tola, Simona Lanzoni e Stefano Ciccone, fondatore ed ex presidente dell’Associazione Maschile Plurale. “La violenza nasce in una cultura condivisa, trasversale, di cui facciamo parte tutti, anche chi non commette violenza aderisce a quei meccanismi che la producono, a quei modelli che la giustificano”, spiega Ciccone.
L’Associazione è presente in circa 12 città tra cui Torino, Roma, Viareggio, Parma, Bologna, Bari, Palermo, Napoli, con circa 500 soci in tutta Italia.”L’idea è quella di ragionare sui modelli culturali e di relazione che producono i rapporti di potere all’interno della società”.
Maschile Plurale si batte per far comprendere che questi modelli non aggiungono libertà all’uomo, piuttosto la tolgono: “Gli uomini sono obbligati ad assumere atteggiamenti aderenti ai modelli mascolini stereotipati e sono così condizionati anche nei rapporti uomo-uomo, frenati nella vicinanza e fortemente competitivi”.
Associazioni come quella di Ciccone sono accolte con un certo scherno nella società: “L’ironia nasce dal senso di imbarazzo che si prova dinanzi a un atteggiamento che rompe gli schemi consolidati, ciò vuol dire che stiamo sfidando una legge non scritta. Nel nostro caso questa ironia rimanda a due preconcetti cementati: il primo riguarda l’idea che uomini che sostengono le donne siano ‘femminilizzati’, il secondo riconduce alla polarizzazione dei comportamenti umani, necessariamente intrappolata nei binomi attivo-passivo, intraprendente-affettuoso, spiritoso-tenero. Se continuiamo a mantenere questi modelli un cambiamento non sarà mai possibile”.
Secondo questa associazione la battaglia deve giocarsi non solo sull’idea di rispetto, ma anche sul tema della libertà, compresa quella degli uomini di comportarsi diversamente rispetto al passato: “Riscontro un grave ritardo culturale del nostro paese anche quando ci rivolgiamo a platee formate soltanto da donne”.
Maschile Plurale da sette anni ha attivato in alcune città come Torino o Livorno un numero gratuito di ascolto; il progetto si chiama ‘Il cerchio degli uomini’: “È una linea a disposizione degli uomini che sono in uno stato di insofferenza e che possono arrivare anche ad avere atteggiamenti violenti. Si cerca di prevenire l’atto estremo o di lavorare sulla violenza commessa per accompagnarli in un percorso di consapevolezza. Negli ultimi due anni la richiesta è molto frequente, a Torino è stata finanziata una campagna promozionale”.
Anche Maschile Plurale parteciperà alla manifestazione Non una di meno indetta per il 26 novembre a Roma con l’intento di sensibilizzare il pubblivo sul tema e incentivare l’attivazione di nuovi gruppi anche in quelle città dove è ancora debole la voglia di cambiamento culturale: “Vogliamo evitare che si partecipi a queste manifestazioni una volta l’anno per dimostrare di essere buoni compagni e avere la coscienza a posto, si deve lavorare tutti i giorni”.
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