È difficile parlarne, è difficile essere creduti, è quasi impossibile tracciare i contorni del fenomeno: sono gli uomini che subiscono violenze dalle donne. Ed esistono anche in Italia.
Sono uomini picchiati, insultati, denigrati, minacciati coltello alla mano e in casa propria, dalla propria compagna: un fenomeno denunciato già in passato da testate come il Guardian, che citando un’indagine statistica del 2010 condotta per una campagna sulle pari opportunità, riportava che il 40 per cento delle violenze domestiche nel Regno Unito era subito dagli uomini.
In Italia non esiste un tipo di assistenza dedicata e se le donne fanno fatica a denunciare le violenze, per gli uomini è praticamente impossibile trovare un modo per chiedere aiuto e ottenerlo.
Pasquale Giuseppe Macrì, docente di medicina legale presso l’Università di Siena, nel 2012 ha realizzato il primo e unico studio sul tema in Italia. Si tratta di “un’indagine conoscitiva rispetto a un argomento ignorato a livello accademico ed istituzionale” – come la definiscono gli stessi realizzatori – e non intende sminuire la portata del fenomeno inverso, ossia quello della violenza degli uomini sulle donne.
I realizzatori dell’indagine hanno spiegato a TPI che “le interviste condotte sui volontari di per sé non garantiscono la veridicità del narrato in quanto non è possibile stabilire se il soggetto risponde o meno onestamente”.
Il gruppo sul quale è stato condotto lo studio è composto da 1.058 volontari. I questionari sono stati somministrati a soli soggetti maggiorenni maschi di una fascia d’età compresa tra i 18 ed i 70 anni.
L’analisi qualitativa dei dati prende in considerazione le variabili di età, stato civile, eventuale prole, luogo di residenza, tipologia della violenza subita. I questionari, in forma anonima, prevedevano la compilazione in versione cartacea o elettronica e sono stati compilati via web con una forma di archiviazione che impedisce l’invio multiplo dallo stesso ID, per ridurre la possibilità che un singolo soggetto potesse compilare più questionari.
Stando a quanto rilevato sul campione, il 18,7 per cento del totale ha subito almeno una violenza sessuale a opera di una donna nel corso della vita.
Per cercare di comprendere meglio quali dinamiche si nascondono dietro questa forma di violenza, TPI ha intervistato Patrizia Montalenti, presidente di Ankyra, l’unico centro in Italia che accoglie a Milano uomini vittime di abusi.
Quando parliamo di violenza sugli uomini pensiamo più facilmente a quella psicologica. Ma si tratta davvero di questo tipo di violenza?
No, nella maggior parte dei casi gli uomini subiscono violenza fisica a tutti gli effetti. Questa è una cosa che il senso comune non immagina neanche. Io non ho visto un caso in cui non ci fosse anche violenza fisica.
Si parla anche di violenza sessuale?
Sì, certo. La violenza sessuale si sostanzia in modo diverso da quella che subiscono le donne. È improntata su una sorta di svilimento del maschio, di denigrazione del soggetto.
La violenza sessuale può anche manifestarsi dopo la violenza fisica: la donna dopo le percosse può chiedere del sesso all’uomo. In quel caso il rapporto viene vissuto male dal soggetto coinvolto.
Viene da chiedersi come mai l’uomo non si ribella alle violenze. In fondo potrebbe reagire grazie alla sua maggiore prestanza fisica…
Purtroppo non è così semplice come immaginiamo. Dobbiamo prima di tutto pensare che l’uomo si vergogna da morire, come probabilmente negli anni Settanta si vergognavano le donne ad ammettere di essere vittime di maltrattamenti.
L’uomo non rivela queste situazioni neanche al suo miglior amico: preferisce parlare con professionisti. Ecco perché si rivolgono a noi direttamente.
Perché l’uomo non si difende?
Non lo fa per due ragioni. Da una parte, non vuole far del male alla sua compagna perché è consapevole della maggiore forza di cui è dotato fisicamente. Dall’altra, l’uomo sa che se dovesse reagire alle violenze, molto probabilmente la partner andrebbe dalle forze dell’ordine e lui non verrebbe creduto.
Ci può fare un esempio?
Ho seguito il caso di un signore che era andato a denunciare di sua spontanea volontà le violenze ai carabinieri ed è stato deriso da loro per tutto il tempo in cui faceva la querela.
Ma l’uomo come si comporta quando chiede aiuto?
Quando ci chiama, ci chiede una soluzione prima per la compagna. “Come si può fare per far curare la mia fidanzata, come si può aiutarla a venirne fuori?”, è la frase tipica.
Nella maggior parte dei casi non c’è l’idea di farsi aiutare per porre fine alla relazione. C’è il forte desiderio di salvare l’unione, di giustificare quelle violenze. Quando si parla di sentimenti non è tutto scontato, non c’è un percorso comune.
Che altro tipo di violenza subisce l’uomo?
C’è molta privazione del sonno. Anche quella è una violenza. Se tu mi tieni sveglia tutta la notte a imprecare e a parlare, e lo fai per tre giorni di seguito, comincia a diventare insostenibile.
Poi c’è la violenza psicologica…
Sì, soprattutto quella che riguarda i figli. Agli uomini la compagna presenta la minaccia di non farglieli più vedere. Questo è il più classico dei casi.
Ma chi sono gli uomini che subiscono violenze? Ci può delineare un profilo?
Nel 2016 abbiamo seguito 40 persone provenienti da tutta Italia. Sono uomini che ci contattano anche dal sud e dal centro. Il ceto di appartenenza è medio alto, ma forse perché non è così semplice trovarci. Bisogna conoscerci, non ci facciamo pubblicità perché non riusciamo a seguire troppi casi.
Dall’inizio del 2017 a oggi abbiamo ricevuto già 50 chiamate, lo scorso anno sono state un centinaio.
Sono persone che non hanno nessuno, che non possono contare su un vero appoggio. Va detto che le donne possono contare su una rete internazionale di protezione. Per gli uomini non esistono associazioni di questo tipo.
Ci sono casi che si sono risolti?
Purtroppo quando la violenza supera una certa soglia, la mediazione e la terapia di coppia sono fallimentari. Capitano dei casi in cui si prova con un percorso di guarigione, ma le donne spesso non sono pronte, fanno un passo avanti e due indietro.
Crede che il progetto del centro Ankyra resterà isolato?
Non credo sarà così ancora a lungo. Le generazioni stanno cambiando, si stanno evolvendo. Pensiamo che negli Stati Uniti, ma anche in molti stati membri dell’Unione Europea, già esistono centri che fanno accoglienza, ospitalità e che li aiutano a seguire un percorso.
Noi ci siamo costituiti nel 2013 perché credevamo molto in questa idea, abbiamo cominciato ad accogliere le persone nel 2014 basandoci sulla disamina di quanto già succedeva negli altri paesi.
L’Italia arriva in ritardo, sempre, ma alla fine ci arriva.
Aggiornamento: Una precedente versione dell’articolo non presentava le dichiarazioni degli autori dell’indagine realizzata dall’Università di Arezzo.
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