[ 🎧 Questo articolo di Veronica Di Benedetto Montaccini nasce come podcast, con voci dal territorio, ascoltalo qui sopra 🎧].
“Il centro d’accoglienza non lo voglio! Il centro di accoglienza non lo voglioooo!”
Queste sono le voci dei residenti di Torre Maura, VI Municipio nella periferia est di Roma, che nel pomeriggio del 2 aprile hanno cominciato a protestare quando un gruppo di settanta rom, tra cui 33 bambini e 22 donne, è arrivato in un centro di accoglienza.
Il centro, fino a poche settimane prima, ospitava richiedenti asilo, mentre i nuovi ospiti provenivano da un altro centro della vicina Torre Angela, chiuso per decisione del Comune. Roma brucia: alle 18.30 i residenti hanno preso dei cassonetti della spazzatura e li hanno messi in mezzo alla strada, incendiandoli.
Poco dopo è arrivata una delegazione di CasaPound, guidata da Mauro Antonini, quindi un gruppo di Forza nuova. I militanti hanno gettato a terra i panini destinati ai rom e li hanno calpestati. Un simbolo per dire ai rom di morire di fame.
Siamo stati a Torre Maura e ai microfoni di TPI la rabbia era tangibile: “Non ce li volevo, questa è zona nostra! Vai a casa tua e portace i Rom…A facce de merdaaaa”, hanno detto i residenti.
Quella che è andata in scena è una nuova guerra tra poveri. Una strumentalizzazione politica da parte dei gruppi dell’estrema destra romana, che sono molto frequenti: casi simili sono avvenuti con le proteste contro il centro per richiedenti asilo minorenni a Tor Sapienza nel 2015 oppure contro i migranti a Rocca di Papa nell’agosto 2018.
Ma non tutti la pensano allo stesso modo. A Torre maura qualcuno sfida CasaPound: è Simone, che a soli 15 anni si è schierato contro chi incita a bruciare vivi i rom. Simone non è d’accordo con la retorica dell’esclusione e dice la sua:
“Sai cosa penso io? Penso che avete usato tutta sta rabbia pe’sfruttalla a livello politico. Perché pur’io so’ de Torre Maura e pe’me non me cambia la vita co’ 70 persone in più”, ha detto Simone.
Ad essere sotto accusa è il modello Alemanno. Tra 2008 e 2013 l’allora sindaco Gianni Alemanno aprì dei centri di raccolta in via Visso, via Amarilli e via Salaria. Quando era all’opposizione, Virginia Raggi si era avvicinata al lavoro di molti esperti e studiosi e aveva contattato anche l’Associazione 21 luglio, esprimendo la volontà di superare il cosiddetto sistema dei campi. Ma nel corso del suo governo Raggi non ha realizzato quello che aveva promesso, cioè “la chiusura dei campi rom”. Per la mala gestione degli enormi campi rom Roma è stata più volte richiamata dalle autorità europee.
Per capire meglio la vicenda, ci vuole qualche numero. L’Italia è uno dei paesi dell’Unione europea dove abitano meno rom, tra le 120mila e le 180mila persone, lo 0,2 per cento della popolazione. Dagli anni ottanta, in alcune città italiane si è deciso di sgomberare gli accampamenti spontanei e di confinare i rom, i sinti e i camminanti all’interno di campi di container gestiti dallo stato, lontano dalle città.
Roma è la città con più campi statali e in questi insediamenti vivono circa cinquemila persone. I dati sono dell’Associazione 21 luglio, secondo la quale “i rom che nella capitale vivono in campi informali in una situazione di emergenza abitativa”.
Nella notte tra il 2 e il 3 aprile, il comune ha deciso di ricollocare i rom in altri centri. La Procura di Roma ha aperto un’inchiesta: nel fascicoli i magistrati ipotizzano reati di danneggiamento e minacce con l’aggravante dell’odio razziale. Per usare i concetti di Simone, è in atto un pericoloso attacco ad una minoranza:
“Qua si sta a toccà una minoranza. E allora perché se ruba un rom se urla e se ruba un italiano se fa finta de niente?! A me non me sta bene che no!!!”, ha spiegato Simone guardando dritto negli occhi un esponente di CasaPound.
E come ha scritto lo storico Sandro Portelli in questi giorni: era meglio l’Alabama perché a Selma, Alabama, migliaia di cittadini marciarono a rischio della propria incolumità per opporsi alla segregazione e al razzismo mentre qui da noi siamo fermi, aspettando che qualcun altro dica “A me, non sta bene che no”.