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Rapido 904, frammenti di una strage dimenticata

Quel che resta della strage di Natale sono i pezzi di vetro nel corpo dei superstiti, che per la prima volta parlano del tragico attentato del 23 dicembre 1984

Di Martino Lombezzi
Pubblicato il 5 Set. 2018 alle 13:00 Aggiornato il 5 Set. 2018 alle 13:02

Cosa è rimasto, oggi, di quel treno, di quella bomba? Forse il reperto più tragico legato alla strage di Natale è contenuto in una piccola scatola blu che Lina L., un’insegnante della provincia di Napoli, mi mostra quando la incontro per raccogliere la sua storia e quella dei suoi genitori, con cui viaggiava sul Rapido 904. Sono tanti piccolissimi pezzi di vetro, frammenti così minuti e taglienti che solo un’esplosione può produrre.

Frammenti che si infilano nel corpo, entrano nella carne e ci restano conficcati per anni; che escono poco alla volta, ogni giorno, ancora oggi. Ogni volta che ne esce uno accende i ricordi di quell’attimo: il buio della galleria, il silenzio rotto dalle urla dei feriti, la disperazione di una madre che cerca sua figlia in mezzo ai rottami del treno. Tutti i feriti che ho incontrato sono accomunati da questo racconto, molti di loro li portano ancora addosso, ma solo Lina quei pezzi di vetro li ha conservati tutti.

Mano a mano che uscivano dal suo corpo, anno dopo anno, li ha messi in questa piccola scatolina blu. Sono la sua memoria del dolore, una reliquia della strage, ma sono anche l’ultimo frammento esistente del treno 904.

“Quando parliamo con qualcuno e raccontiamo di essere rimasti vittime di una strage e citiamo il Rapido 904, nella maggior parte dei casi la gente non ha idea di quello di cui stiamo parlando: ci confondono con la strage di Bologna, o addirittura qualcuno raramente cita l’Italicus”.

Nel 1984 Alessandro e Gian Pasquale Serino sono due bambini di dieci e dodici anni. Il 23 dicembre insieme alla madre salgono sul treno alla stazione di Napoli, diretti a Milano dove abita la sorella più grande. Le carrozze sono molto affollate, piene di famiglie che si spostano per le festività. Al calar della sera il treno arriva a Firenze, carica altri passeggeri e prosegue la sua corsa attraverso l’Appennino.

Fuori è ormai buio, e pochi si rendono conto di essere entrati in una galleria, sulla linea ferroviaria Firenze-Bologna. Si chiama “grande galleria dell’Appennino” ed è la più lunga galleria d’Italia.

“C’è stata una vampata di fuoco che ha camminato lungo il corridoio, per i primi cinque o sei minuti io non ho sentito nulla, poi è come se qualcuno stesse alzando il volume e ho cominciato a sentire lamenti, pianti, grida…” racconta Alessandro.

“Le schegge mi hanno investito in pieno” ricorda Gian Pasquale “sono rimasto un po’ per terra un po’ sulle ginocchia di mia madre, per degli attimi che in realtà mi sono sembrati lunghissimi, interminabili.

Poi è accaduto tutto molto velocemente, siamo scesi dal vagone e istintivamente siamo andati dal lato dove non c’erano i cadaveri, mi sono appoggiato a mio fratello che si è sporcato del mio sangue, perché io avevo un buco in un’arteria, che zampillava sangue”.

Seduti di fronte a me in casa della madre Enza, anche lei ferita gravemente e tra le fondatrici dell’Associazione familiari delle vittime della strage, dopo trent’anni i due fratelli hanno accettato per la prima volta di parlare della loro esperienza di bambini sopravvissuti a questa strage dimenticata, che è costata la vita a 16 persone e ha provocato 266 feriti.

“Ricordo” dice Gian Pasquale “l’infermiere che era al mio fianco dentro l’ambulanza che incitava l’autista a correre sempre più veloce, urlando ‘lo perdiamo lo perdiamo, vai più veloce vai più veloce’ ”.

Nel caos dei soccorsi la famiglia si separa e Alessandro, miracolosamente illeso, ritrova il fratello qualche giorno dopo in ospedale: “Stava in una sagoma di gesso, coricato. E lì mi resi conto che non si era salvato nulla del suo corpo: io invece non ho avuto nemmeno un punto di sutura. Questo è un altro passaggio, la domanda che mi son portato dietro durante quei giorni: io perché no?”.

Dopo anni di terapia, Alessandro riesce oggi per la prima volta a rievocare insieme al fratello il trauma che ha segnato la loro infanzia, ma non sopporta il peso della dimensione pubblica che il ruolo di vittima di strage comporta.

“Non ho mai preso parte a riunioni, a manifestazioni, ci sono parecchie delle persone che conosco che non sanno di questa cosa, che non sono assolutamente a conoscenza nemmeno del fatto che io stessi lì. Vivo una sorte di gelosia nei confronti dei miei ricordi e nei confronti di questo episodio, e non intendo assolutamente farlo strumentalizzare da nessuno”.

Forse anche per questo i fratelli Serino, come altri sopravvissuti, hanno disertato le aule del tribunale di Firenze, dove di recente si è aperto un nuovo capitolo della vicenda processuale. Ancora oggi è molto difficile affrontare qualcosa che molti sentono come appartenente alla sfera privata ed intima della propria esistenza.

“Un dolore che non ti passa mai” dice Gian Pasquale “all’improvviso arriva, di notte, ti svegli, ti capita di provare dolore per qualcosa che non hai ancora capito perché è accaduto. E quello è un male incurabile: il fatto di aver avuto a dieci, dodici anni,  l’obbligo di diventare adulto, senza più la possibilità di crescere come un ragazzino in maniera spensierata. Perché sai che basta una schiocco di dita da parte di qualcuno che nemmeno conosci, e la tua vita è finita”.

Per l’attentato al treno 904, due valigie di pentrite e T4 innescate con un radiocomando mentre il treno attraversa la galleria, sedici morti e più di duecento feriti, sono stati condannati in via definitiva il boss di Cosa Nostra Giuseppe “Pippo” Calò, i suoi complici Guido Cercola e Franco Di Agostino e l’artificiere tedesco Friedrich Schaudinn; sono stati dimostrati i complessi legami tra clan camorristi, destra neofascista partenopea e mafia siciliana nell’organizzazione della strage, ma diversi punti rimangono ancora oscuri.

Secondo la procura di Firenze Totò Riina fu “mandante, determinatore e istigatore della strage”. Durante il processo, svoltosi nel 2015, il pentito Leonardo Messina ha descritto l’attentato come “un segnale agli amici politici, e un segnale all’interno della mafia”. La corte, però, non ha ritenuto provata la responsabilità di Riina, e si è pronunciata per l’assoluzione.

Chi ha trovato nell’aula bunker del tribunale di Firenze un luogo per venire a patti con questa esperienza è Loretta Pappagallo, una signora toscana che la sera del 23 dicembre 1984 viaggiava da sola, diretta a Milano per lavoro. Per trent’anni Loretta ha cercato di rimuovere l’accaduto: “ho deciso che di questa storia non ne volevo più sentir parlare, proprio nella maniera più assoluta.”

I suoi ricordi oggi sono sbiaditi, sfocati, “un ammasso di persone, le urla, i pianti, il silenzio terribile quando siamo arrivati a Bologna, questa gente muta silenziosa che ti guardava passare”. E poi la rabbia, “una rabbia spaventosa, se avessi potuto far del male a qualcuno come qualcuno l’aveva fatto a me, l’avrei fatto. Che uno decida che io salgo su un treno, torno a lavorare, e mi ritrovo a saltare per aria no! Non lo accetto e non l’ho mai accettato”.

L’anno scorso per la prima volta Loretta, tutte le volte che c’era un’udienza, ha preso il suo treno da Milano per poter assistere: “ho deciso di voler esserci proprio per mettere alla prova me stessa. Voglio riviverlo da persona più consapevole. Mi farà male, però ci voglio essere. Forse è l’unico modo per superare”.

Ustica ha il suo aereo, recuperato e reinstallato da Boltanski a Bologna in un museo visitato da tutte le scuole. La sala d’attesa della stazione del capoluogo emiliano, con la sua enorme crepa, è meta di pellegrinaggio di giovani e anziani da tutta Italia, ma nessuno ha pensato di conservare le carrozze sventrate dall’esplosione del 23 dicembre 1984. Lasciate per anni in un deposito ferroviario, nel 1994 vennero smaltite dalle ferrovie come “rifiuto speciale”.

Il film “Rapido 904 la strage di Natale” di Martino Lombezzi  va alla ricerca delle tracce che l’attentato del 23 dicembre 1984 al treno Napoli Milano ha lasciato nei corpi e nella memoria dei sopravvissuti: alcuni di loro, dopo trent’anni di silenzio, parlano oggi per la prima volta.

Qui sotto il trailer del film:


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