Era ancora scuro, la notte tra il 2 e il 3 ottobre 2013, quando quel barcone carico di profughi arrivò a meno di un chilometro da Lampedusa. La prua era puntata verso la Spiaggia dei Conigli. Una grossa unità sbucata dal buio lo ha affiancato a distanza e poi ha girato tutt’intorno, disegnando in mare quasi una cerchio completo, per poi allontanarsi rapidamente.
Per attrarne l’attenzione, qualcuno sul barcone ha dato fuoco a un telo intriso di benzina. Ne è scaturito un incendio che ha spinto i profughi tutti sulla fiancata opposta, rompendo l’equilibrio già precario del natante sovraccarico e provocandone il ribaltamento.
Ci furono 366 vittime.
Una strage che ha cambiato di colpo, in milioni di persone, la percezione del problema immigrazione, con un fiume di impegni e promesse, a tutti i livelli, perché non ci fosse mai più un’altra Lampedusa per i disperati in fuga dal Sud del mondo verso l’Europa.
Cinque anni dopo non resta granché di quella emozione e, soprattutto, di quegli impegni: le promesse sono diventate parole al vento.
Il quinto anniversario di questa tragedia arriva proprio all’indomani del nulla osta del Consiglio dei Ministri a un decreto che erige l’ennesima barriera di morte in faccia a migliaia di altri rifugiati e migranti come i ragazzi spazzati via in quell’alba grigia del 3 ottobre 2013.
Non sappiamo se esponenti di questo governo e di questa maggioranza o, più in generale, se altri protagonisti della politica degli ultimi anni, intendano promuovere o anche solo partecipare a cerimonie ed eventi in memoria di quanto è accaduto.
Ma se è vero, come è vero, che il modo migliore di onorare i morti è salvare i vivi e rispettarne la libertà e la dignità, allora non avrà senso condividere i momenti di raccoglimento e di riflessione, che la data del 3 ottobre richiama, con chi da anni costruisce muri e distrugge i ponti, ignorando il grido d’aiuto che sale da tutto il Sud del mondo.
Se anche loro vogliono “ricordare Lampedusa”, che lo facciano da soli. Che restino soli. Perché in questi cinque anni hanno rovesciato, distrutto o snaturato quel grande afflato di solidarietà e umana pietà suscitato dalla strage nelle coscienze di milioni di persone in tutto il mondo.
Che cosa resta, infatti, dello “spirito” e degli impegni di allora? Nulla. Si è regrediti a un cinismo e a una indifferenza anche peggiori del clima antecedente quel terribile 3 ottobre.
E, addirittura, nonostante le indagini in corso da parte della magistratura, non si è ancora riusciti a capire come sia stato possibile che 366 persone abbiano trovato la morte ad appena 800 metri da Lampedusa e a meno di due chilometri da un porto zeppo di unità militari veloci e attrezzate, in grado di arrivare sul posto in pochi minuti.
La vastità della tragedia ha richiamato l’attenzione, con la forza enorme di 366 vite perdute, su due punti in particolare: la catastrofe umanitaria di milioni di rifugiati in cerca di salvezza attraverso il Mediterraneo; il dramma dell’Eritrea, schiavizzata dalla dittatura di Isaias Afewerki, perché tutti quei morti erano eritrei.
Al primo “punto” si rispose con Mare Nostrum, il mandato alla Marina italiana di pattugliare il Mediterraneo sino ai margini delle acque territoriali libiche, per prestare aiuto alle barche di migranti in difficoltà e prevenire, evitare altre stragi come quella di Lampedusa. Quel piano di ricerca e soccorso è stato un vanto per la nostra Marina, con migliaia di vite salvate.
A cinque anni di distanza non solo non ne resta nulla, ma sembra quasi che buona parte della politica lo consideri uno spreco o addirittura un aiuto dato ai trafficanti. Sta di fatto che esattamente dopo dodici mesi, nel novembre 2014, Mare Nostrum è stato “cancellato”, moltiplicando – proprio come aveva previsto la Marina – i naufragi e le vittime, inclusa l’immane tragedia del 15 aprile 2015, con circa 800 vittime, il più alto bilancio di morte mai registrato nel Mediterraneo in un naufragio.
E, al posto di quella operazione salvezza, sono state introdotte via via norme e restrizioni che neanche l’escalation delle vittime è valsa ad arrestare, fino ad arrivare ad esternalizzare sempre più a sud, in Africa e nel Medio Oriente, le frontiere della fortezza Europa, attraverso tutta una serie di trattati internazionali, per bloccare i rifugiati in pieno Sahara, “lontano dai riflettori”, prima ancora che possano arrivare ad imbarcarsi sulla sponda sud del Mediterraneo.
Questo hanno fatto e stanno facendo trattati come il Processo di Khartoum (fotocopia del precedente Processo di Rabat), gli accordi di Malta, il trattato con la Turchia, il patto di respingimento con il Sudan, il ricatto all’Afghanistan (costretto a “riprendersi” 80 mila profughi), il memorandum firmato con la Libia nel febbraio 2017 e gli ultimi provvedimenti di questo Governo.
Per non dire della criminalizzazione delle Ong, alle quali si deve circa il 40 per cento delle migliaia di vite salvate, ma che sono state costrette a sospendere la loro attività, giungendo persino a fare pressione su Panama perché revocasse la bandiera di navigazione alla Aquarius, l’ultima nave umanitaria rimasta in tutto il Mediterraneo.
Con i rifugiati eritrei, il secondo “punto”, si è passati dalla solidarietà alla derisione o addirittura al disprezzo, tanto da definirli – nelle parole di autorevoli esponenti dell’attuale maggioranza di governo – “profughi vacanzieri” o “migranti per fare la bella vita”, pur di negare la realtà della dittatura di Asmara.
È un processo iniziato subito, già all’indomani della tragedia, quando alla cerimonia funebre per le vittime, ad Agrigento, il Governo ha invitato l’ambasciatore eritreo a Roma, l’uomo che in Italia rappresenta ed è la voce proprio di quel regime che ha costretto quei 366 giovani a scappare dal paese. Sarebbe potuta sembrare una “gaffe”.
Invece si è rivelata l’inizio di un percorso di progressivo riavvicinamento e rivalutazione di Isaias Afewerki, il dittatore che ha schiavizzato il suo popolo, facendolo uscire dall’isolamento internazionale, associandolo al Processo di Khartoum e ad altri accordi, inviandogli centinaia di milioni di euro di finanziamenti, eleggendolo, di fatto, gendarme anti immigrazione per conto dell’Italia e dell’Europa.
Sia per quanto riguarda i migranti in generale che per l’Eritrea, allora, a cinque anni di distanza dalla tragedia di quel 3 ottobre 2013, resta l’amaro sapore di un tradimento.
– Traditi la memoria e il rispetto per le 366 giovani vittime e tutti i loro familiari e amici.
– Traditi le migliaia di giovani che con la loro stessa fuga denunciano la feroce, terribile realtà del regime di Asmara, che resta una dittatura anche dopo la recente firma della pace con l’Etiopia per la lunghissima guerra di confine iniziata nel 1998.
– Tradito il grido di dolore che sale dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Italia e l’Europa da parte di un intero popolo di migranti costretti ad abbandonare la propria terra: una fuga per la vita che nasce spesso da situazioni create dalla politica e dagli interessi economici e geostrategici proprio di quegli Stati del Nord del mondo che ora alzano barriere.
Ecco: ovunque si voglia ricordare in questi giorni la tragedia di Lampedusa, sull’isola stessa o da qualsiasi altra parte, non avrà alcun senso farlo se non si vorrà trasformare questa triste ricorrenza in un punto di partenza per cambiare radicalmente la politica condotta in questi cinque anni nei confronti di migranti e rifugiati. Gli “ultimi della terra”.
Di Emilio Drudi per Tempi-moderni.net
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