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La storia di Chiara che a 28 anni ha già conquistato Marte e la Terra

L'ingegnera aerospaziale siciliana è stata l'unica europea a prendere parte al programma della Nasa nello Utah per la sperimentazione della vita sul pianeta rosso

Di Lara Tomasetta
Pubblicato il 30 Gen. 2017 alle 16:40 Aggiornato il 31 Gen. 2018 alle 10:56

Studiare in Italia, lavorare in Germania e conquistare lo spazio: questa è la storia di Chiara Cocchiara, un ingegnere aerospaziale di 28 anni che ha avuto l’onore di partecipare – come unica europea – al progetto internazionale della Nasa per la sperimentazione della vita su Marte.

Chiara ha partecipato al programma MDRS (Mars Desert Research Station), un esperimento condotto dalla Mars Society, che, in collaborazione con la Nasa, ha simulato per due settimane la vita su Marte insieme a un gruppo di ingegneri scelti. La selezione si è basata su parametri fisici e psicologici e su competenze professionali.

Grazie a questa straordinaria esperienza, Chiara ha anche “conquistato la Terra”. È stata inserita dalla rivista statunitense Forbes nella classifica degli italiani under 30 più influenti del 2017 e ha raccontato a TPI come ha ottenuto questi risultati.

Ciao Chiara, come sei venuta a conoscenza di questo programma?

Nel 2014 presi parte a una conferenza internazionale a Toronto, l’International Astronautical Congress, dove ebbi l’opportunità di conoscere alcuni esponenti della Nasa e di assistere a simulazioni e lezioni di astronauti. In quell’occasione fui selezionata per far parte del progetto, della durata di un anno, HI-SEAS, che prevedeva una simulazione della vita su Marte alle Hawaii.

Progetto cui però hai rinunciato…

Sì, ero già entrata a far parte dell’EUMETSAT ( European Organization for the Exploitation of Meteorological Satellites), un centro tedesco che si trova a Darmastadt, in Germania, dove tutt’oggi lavoro, che si occupa di operazioni spaziali per satelliti meteorologici. Era un momento importante per la mia carriera e trascorrere un anno fuori significava di fatto perdere l’opportunità di una crescita. Così decisi di rinunciare e candidarmi per un progetto più breve, con una turnazione di sole due settimane, come previsto dal programma della Mars Society.

Così hai trascorso due settimane nel deserto dello Utah, negli Stati Uniti, a 4mila metri di altezza. Cosa ricordi di quell’esperienza?

Ammetto che fu provante. Era il mio sogno partecipare a un’esperienza simile, ma il mio equilibrio psicologico e fisico fu messo alla prova. Non avevamo contatti con l’esterno e vivevamo in una condizione di totale isolamento. Anche il nostro corpo doveva essere temprato, il primo ospedale raggiungibile era a 200 chilometri da noi. Bisognava essere in grado di non farsi cogliere dal panico. Capitava che ci fossero alcuni inconvenienti, come sanguinamento dal naso, vista l’altezza alla quale ci trovavamo. Dovevamo vivere in tutto e per tutto come fossimo astronauti per cui mangiavamo cibo disidratato ed erano previste anche operazioni extra veicolari.

Come si svolgevano?

In base al calendario avevamo dei turni in cui due volte al giorno, due membri dell’equipaggio uscivano dalla base per fare ricerca all’esterno, eravamo provvisti di bombole ad ossigeno. Durante la simulazione ho potuto testare anche due tipi diversi di tuta spaziale, confrontando i pregi e i difetti di entrambe e annotando i possibili miglioramenti.

Oggi di cosa ti occupi?

Sono un operation engeneer e lavoro sulla preparazione di missioni future, programmo dei satelliti per il 2021 e sto lavorando nella coordinazione di tutto quello che serve per future operazioni. Stiamo collaborando con la Mars Society d’Italia che oggi si chiama Mars Planet per il prototipo di una futura tuta spaziale. Stiamo realizzando il prodotto con un gruppo di ingegneri, mentre un altro gruppo sta lavorando sui software e sui sensori da inserire sulla tuta.

Cosa rispondi a chi sostiene che per molti giovani italiani lavorare all’estero sia ormai una scelta obbligata?

Ho avuto modo di riportare le mie impressioni anche all’allora capo di gabinetto di Renzi. È vero che oggi lavoro all’estero, ma lo faccio rappresentando l’Italia in un’agenzia europea. L’Italia è il quarto paese europeo per contributi al programma nel settore spazio e questo anche in termini di posti di lavoro. Bisogna rendersi conto che la globalizzazione avviene anche dal punto di vista lavorativo e che anche questo è sviluppo per un paese. Certamente mi manca l’Italia, ma non sono un cervello in fuga.

Però è un fatto che molti giovani e capaci ragazzi italiani siano dovuti “emigrare” per vedersi riconosciuti i propri meriti…

L’Italia è ancora in una fase decrescente, e deve riprendersi. Ma non bisogna mettere limiti. Il consiglio che mi sento di dare ai miei coetanei è quello di inseguire i sogni, capire ciò che si vuole nella vita e non demoralizzarsi, nonostante gli ostacoli. L’italiano tende a demoralizzarsi un po’ invece deve fare affidamento sul carattere che all’estero tutti ci invidiano. La nostra positività è una caratteristica da preservare.

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