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La storia del piccolo Stefano Pompeo, ucciso dalla mafia 20 anni fa, diventa un documentario

Stefano Pompeo

Per l'omicidio dell'undicenne a Favara, avvenuto nel 1999, non c'è ancora nessun colpevole. Il docufilm "Quasi 12" ripercorre la sua vicenda

Di Davide Lorenzano
Pubblicato il 26 Apr. 2019 alle 14:03 Aggiornato il 26 Apr. 2019 alle 15:10

“C’era una volta un bambino che amava le automobili”. Poteva cominciare così il racconto di una storia per ragazzi, che invece è finita malissimo: nell’inchiostro melmoso della piovra mafiosa.

Quando il 22 aprile del 1999 i notiziari passarono la notizia dell’omicidio del piccolo Stefano Pompeo, l’Italia aveva appena subìto il colpo dell’uccisione di Giuseppe Di Matteo, rapito e tenuto prigioniero per quasi tre anni finché, l’11 gennaio del 1996, all’età di quindici anni, non fu torturato, ucciso e il corpo sciolto nell’acido. Stefano, invece, aveva appena undici anni quando il suo delitto si consumò nelle campagne di Favara, in provincia di Agrigento.

Quella sera, tre colpi di fucile furono esplosi contro un fuoristrada di proprietà di Carmelo Cusimano, fratello di Giuseppe, ritenuto il boss locale di Cosa nostra, il vero obiettivo dell’agguato. L’autista, Vincenzo Quaranta, rimase miracolosamente illeso, sul mezzo però s’era intrufolato, ignaro, il piccolo Stefano.

Il suo, un desiderio semplice: fare un giro in jeep. Per questo insisté con Quaranta per accompagnarlo ad acquistare il pane per la cena, mentre suo padre stava partecipando al sezionamento di un suino su richiesta di alcuni compaesani.

I sicari – rimasti senza identità –, convinti di avere centrato il nemico, eliminarono il bambino innocente, scrivendo la parola fine su una giovane vita, su un figlio di una famiglia perbene che con la criminalità non aveva nulla a che fare.

Un infanticidio in piena regola, senza nessun indagato, senza nessun colpevole. Un’altra vittima della brutalità mafiosa dimenticata, già da quel funerale a cui lo Stato negò la sua presenza: nessun rappresentante delle Istituzioni si unì al cordoglio della famiglia Pompeo per garantire l’impegno di un’azione decisa contro l’incubo mafioso.

Vent’anni dopo, la memoria del piccolo Stefano rivive in un documentario dal titolo “Quasi 12” scritto e diretto dal giornalista Gero Tedesco, prodotto da Fuori Riga. Presentato in prima visione presso il Cinema Astor di Agrigento martedì 23 aprile, hanno partecipato anche la mamma e il papà della vittima, Carmelina Presti e Giuseppe Pompeo, accolti da un fragoroso applauso: “Amava la vita, sua e dei suoi cari. È sempre presente a casa. Anche i suoi cuginetti ne parlano, nonostante non l’abbiano conosciuto. Nella nostra famiglia si parla di Stefano in qualsiasi ricorrenza” è la testimonianza di Carmelina, con un lieve tono di voce e gli occhi lacrimosi.

“La giustizia non è stata capace di fare giustizia – è l’affondo di Giuseppe, con l’impeto di chi a un’occasione pubblica di riscatto e denuncia non ci credeva più – La speranza si va perdendo, ma c’è ancora. Queste manifestazioni fanno piacere. È una serata emozionante” ha concluso il papà di Stefano, ringraziando il regista per l’opera di grande servizio pubblico.

“Il guaio è che noi uomini non sappiamo più a parlare di amore. Nonostante queste storie, queste tragedie che ci feriscono, continuiamo a macinare malvagità” ha detto l’Arcivescovo metropolita di Agrigento e Cardinale Francesco Montenegro, che ha lanciato una rigida provocazione: “Una frase non riesco ad accettare, ‘Stefano era al momento sbagliato e al posto sbagliato’. Chi lo ha ucciso era al posto giusto e al momento giusto? Perché il cittadino non può sentirsi libero di andare in campagna, di andare al mare o per le strade e il mafioso ha il diritto di togliere la vita? Come cittadino, cercando di vivere la mia libertà e rispettando quella degli altri, sono al posto giusto. Stefano era al suo posto. Un bambino che voleva provare l’ebbrezza di un’automobile. Quegli uomini che hanno sparato erano al posto sbagliato. Non dovevano stare là e non dovevano stare in nessun posto”.

Torna perciò a tamburo battente l’appello affinché lo Stato colmi il debito con la famiglia Pompeo, per cercare verità e restituire giustizia. Vent’anni dopo.

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