Il 16 marzo 1978 un commando composto da alcuni militanti delle Brigate Rosse assalì l’automobile sulla quale viaggiava il segretario della Democrazia Cristiana Aldo Moro in via Mario Fani, nella zona di Monte Mario, a Roma.
I carabinieri Oreste Leonardi e Domenico Ricci e gli agenti di pubblica sicurezza Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino, componenti della scorta di Aldo Moro, furono uccisi dai colpi di arma da fuoco esplosi dai brigatisti.
Il segretario della Democrazia Cristiana venne sequestrato dal commando che lo tenne prigionieri per 55 giorni, al termine dei quali Moro venne ucciso.
Il giorno dell’agguato, alla Camera dei Deputati, era in programma il voto di fiducia per il quarto governo Andreotti, il primo esecutivo dal 1947 che avrebbe ottenuto la fiducia, seppur come appoggio esterno, del Partito Comunista Italiano.
I 55 giorni che passarono tra l’agguato di via Fani e l’uccisione di Aldo Moro trascorsero in un clima surreale: secondo quanto riportato da Leonardo Sciascia, scrittore e parlamentare del Partito Radicale, nella relazione di minoranza della commissione Moro, in Italia ebbero luogo in quel periodo 72.460 posti di blocco, 37.702 perquisizioni in casa, 6.413.713 persone vennero controllate e 3.383.123 autoveicoli subirono un’ispezione.
Controlli a tappeto che tuttavia non riuscirono a trovare i colpevoli e che non evitarono la fine tragica della vicenda.
Anche per questa ragione, la vicenda, nota alle cronache come “Caso Moro”, resta uno dei cosiddetti “Misteri d’Italia”, intorno ai quali non è stata fatta tuttora particolare chiarezza e sui quali è stato ipotizzato un coinvolgimento di componenti estrenee alle Brigate Rosse che, nell’ambito di un più ampio disegno, avrebbero aiutato i terroristi a compiere quello che fu, a tutti gli effetti, un attacco al cuore dello stato italiano.
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