Leggi TPI direttamente dalla nostra app: facile, veloce e senza pubblicità
Installa
Menu
Home » News

Dj Fabo, Marco Cappato: “Mi dispiace che il presidente Conte si sia costituito contro di me”

La Corte costituzionale è stata chiamata a decidere sulla questione di legittimità, sollevata dalla Corte d'assise di Milano nell'ambito del processo sulla morte di Dj Fabo, dell'articolo 580 del codice penale che punisce l'istigazione e l'aiuto al suicidio

Di Marta Facchini
Pubblicato il 23 Ott. 2018 alle 19:23 Aggiornato il 23 Ott. 2018 alle 20:24

La Corte costituzionale, martedì 23 ottobre, è stata chiamata a decidere sulla questione di legittimità, sollevata dalla Corte d’assise di Milano nell’ambito del processo sulla morte di Dj Fabo, dell’articolo 580 del codice penale che punisce l’istigazione e l’aiuto al suicidio. La sentenza è stata rimandata a domani, mercoledì 24 ottobre.

In aula, tra il pubblico, erano presenti Mina Welby e la compagna di Dj Fabo, Valeria Imbrogno.

Sui banchi anche Marco Cappato, dell’Associazione Luca Coscioni, che aveva accompagnato Dj Fabo in Svizzera. Il leader radicale aveva portato Fabo fino alla clinica Dignitas di Zurigo, dove era morto il 27 febbraio 2017. Per questo, Cappato è stato imputato per aiuto al suicidio e rischia 12 anni di carcere.

Al termine dell’udienza, Cappato ha affermato: “Avevo capito che tra gli obiettivi di questo governo ci fosse la rapida e certa trattazione delle leggi di iniziativa popolare. Noi da 5 anni attendiamo l’intervento del legislatore sulla nostra legge di iniziativa popolare per l’eutanasia legale“.

“Se un Presidente del consiglio a nome del governo interviene in giudizio contro di me invocando l’inammissibilità e infondatezza della questione rimandando all’intervento del legislatore, questa è un’assunzione di responsabilità politica”, ha aggiunto l’esponente dei radicali.

Il governo si è costituito a difesa della legge ed è stato rappresentato dall’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri.

“Non chiediamo un lugubre diritto a morire, ma il diritto a essere aiutati a morire di mano propria”, in quei casi in cui “ci dobbiamo chiedere se si possa parlare ancora di suicidio, quando il corpo si è congedato dalla persona e lo spirito è prigioniero”, ha spiegato il professor Vittorio Manes, il difensore Cappato, durante l’udienza.

“È la prima volta che la Corte deve decidere sul suicidio assistito e abbiamo di fronte un caleidoscopio di possibilità: ciò dimostra che nulla è precluso, tutto è percorribile, l’unica strada non percorribile è quella di non decidere perchè una pronuncia di inammissibilità lascerebbe un retrogusto amaro di indifferenza”.

Ai giudici costituzionali, quindi, “non chiediamo di dire che tutto è consentito, non chiediamo di rinunciare al precetto dell’articolo 580 ma diciamo no a un paternalismo cieco e irragionevole che omologhi situazioni non omologabili: il codice penale rispetti sia chi ha deciso per la vita ad ogni costo, sia chi decide per la dignità del vivere o per la dignità del morire”, ha aggiunto Manes.

I giudici della Consulta, dopo una breve riunione in camera di consiglio, hanno respinto le istanze di intervento presentate dal senatore leghista Simone Pillon, in qualità di legale dell’associazione ‘Vita è’, e dal Movimento per la vita italiano.

“Non ci può essere frattura tra il mondo naturale e quello del diritto. La vita è sempre vita, la morte è sempre morte”, aveva detto Pillon. La Corte ha dichiarato inammissibili le richieste di intervento, osservando che tali associazioni “non sono parti del processo” e non “sono legittimate a partecipare al giudizio”.

È intervenuta anche Valeria Imbrogno, la fidanzata di Dj Fabo: “La Corte abbia la giusta apertura mentale per sancire il diritto di essere liberi di poter scegliere, aiutando così tutti coloro che si trovano in situazioni simili a quella di Fabiano. Con Fabiano abbiamo sempre parlato di qualità della vita e lui diceva che non aveva più alcuna qualità nel vivere. Sono qui oggi anche nel nome di Fabiano, è quello che lui avrebbe voluto”.

L’Avvocatura generale dello Stato aveva insisito affinchè la questione fosse dichiarata inammissibile, come già sostenuto per conto del precedente governo, guidato da Paolo Gentiloni, che decise di costituirsi parte nel procedimento davanti ai giudici costituzionali, e ribadito, con nuove memorie, dall’Esecutivo Conte.

I giudici milanesi avevano sollevato la questione della legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale – intitolato “istigazione o aiuto al suicidio” e introdotto nel 1930 con il codice Rocco – nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio.

Tale interpretazione violerebbe, secondo la Corte d’assise di Milano, alcuni punti della Costituzione in forza dei quali il diritto a porre fine alla propria esistenza costituirebbe una libertà della persona, facendo ritenere quindi “non lesiva di tale bene” la “condotta di partecipazione al suicidio che però non pregiudichi la decisione di chi eserciti questa libertà”.

Anche la previsione, per queste condotte, di una pena compresa tra i 5 e i 12 anni, senza distinguerle affatto da quelle di istigazione al suicidio, sarebbe in contrasto, sostengono i giudici milanesi, con il principio di ragionevolezza della pena in funzione dell’offensività del fatto.

“Il diritto alla libertà e all’autodeterminazione, che è declinato nell’articolo 32 della Costituzione con riferimento ai limiti dei doveri/poteri d’intervento dello Stato a tutela della salute delle persone, è stato affermato in modo chiaro dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia di trattamenti terapeutici, riconoscendo in modo sempre più deciso il diritto del paziente all’autodeterminazione nell’individuare le cure a cui sottoporsi e l’obbligo di rispettarne la decisione, anche se da questo possa derivare la sua morte”, si leggeva nell’ordinanza di rimessione trasmessa alla Consulta dalla Corte d’assise di Milano, in cui si citano anche le sentenze sui casi Welby ed Englaro, nonchè la legge sul biotestamento varata nel 2017.

Secondo la Corte milanese, “deve escludersi che il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorche’ da esso consegue il sacrificio del bene della vita”.

Leggi l'articolo originale su TPI.it
Mostra tutto
Exit mobile version