Il quindicenne morto dopo essere caduto dal tetto di un centro commerciale a Sesto San Giovanni, vicino Milano, aveva scritto sui social di “non avere paura della morte”. Su Instagram aveva pubblicato una foto scattata sul tetto di un palazzo di molti piani, che mostrava verso il basso il vuoto di un’ampia corte. selfie estremi blackout consigli genitori
Ma si può morire per un selfie? O per una sfida che arriva dalla rete, come il caso del “blackout“, la folle moda che ha portato alla morte di un 14enne a Milano?
“La sfida non fa paura. La morte non fa paura”, sottolinea in un comunicato stampa l’associazione Pepita onlus, una cooperativa sociale che si occupa di educazione. “Così i i ragazzi perdono di vista il valore della vita e si spingono oltre per provare al gruppo che ci sono, esistono. Poi la loro esistenza sfuma in un errore fatale”.
“Andare oltre e mettersi alla prova rientra nelle caratteristiche degli adolescenti ed è il loro modo per entrare nel mondo adulto e farsi strada affrancandosi dalla famiglia. Ma in questo caso c’è un pensiero distorto, una propensione a spingersi oltre il confine senza conoscere le conseguenze a cui si può andare incontro”.
“Sono frequenti le notizie di sfide – spiega Marco Bernardi, psicologo psicoterapeuta e responsabile del Centro Studi di Pepita Onlus – diffuse online in cui il “gioco” consiste nel farsi del male, nel ferire il proprio corpo e nei modi più disparati. Purtroppo in alcuni casi tutto questo porta alla morte, ma sarebbe sbagliato pensarle come a dei modi per togliersi la vita. Gli studi, soprattutto nel campo psicoanalitico, ci dicono che è certo che chi si ferisce lo fa per un motivo che ha poco o nulla a che fare con l’idea di togliersi la vita. I motivi sono profondi, riguardano il rapporto con il proprio corpo, con gli aspetti inconsci della persona”.
Secondo ultime ricerche in campo psicoanalitico, i ragazzi, e soprattutto le ragazze, solitamente si feriscono per negare la separazione o la perdita (mi rifiuto di accettare la perdita di una relazione che prima avevo e che ora non ho più); coprire un corpo vissuto con vergogna o attaccarlo perché vissuto come estraneo; tentare una separazione (se mi taglio, “taglio” anche un cordone ombelicale che mi opprime); affrontare un senso interno di frammentazione.
“Tutto questo – prosegue Bernardi – può riguardare da vicino un adolescente, impegnato com’è nell’affrontare quei compiti evolutivi che riguardano la separazione e la definizione di sé, la mentalizzazione del proprio nuovo corpo sessuato e la costruzione di un’identità coesa. Un atto autolesivo può trasformare una sofferenza psichica in fisica, in modo da poterla tenere sotto controllo e comunicare senza parole”.
La potenza mediatica della rete e dei social network, in questo caso, che avvicinano senza creare una relazione reale e stabile, rende il gesto pubblico e visibile a chiunque.
“I nostri ragazzi cercano la botta di adrenalina – commenta Ivano Zoppi, Presidente di Pepita Onlus e Cuore e Parole e Direttore della Fondazione Carolina – e noi non possiamo stigmatizzare il gesto, considerandolo fuori dagli schemi. Leggiamo il disagio tra le righe, senza avere il timore di parlare di argomenti forti con i ragazzi. Apriamo con loro il dialogo e rispettiamo i loro spazi, ma soprattutto, basta dire “non so, non sapevo, non conosco”. Dobbiamo essere presenti nei momenti della loro vita in cui l’asticella viene spostata troppo avanti”.
Come possono prepararsi i genitori?
Ecco alcuni consigli stilati dall’équipe del Centro Studi di Pepita Onlus, da oltre quindici anni impegnata nell’avventura dell’educare e nell’affrontare i disagi adolescenziali nelle scuole e in tutte le realtà educative attraverso modelli interattivi che aiutano i ragazzi a responsabilizzarsi.
- Avviare il dialogo quando i bambini sono molto piccoli, mettendo al centro l’importanza del gioco come strumento di relazione;
- Capire momenti giusti e rispettare gli spazi dei figli adolescenti, tenendo questo dialogo attivo;
- Osservare a distanza comportamenti anomali e sofferenze: quando si chiudono in camera troppo a lungo, non escono con gli amici, cambiano umore;
- Vigilare sui loro profili social e con loro concordare tempi e modi di utilizzo, stabilendo insieme regole, ricordando loro che siete voi genitori gli intestatari del contratto e i proprietari dello smartphone e l’utilizzo da parte loro e una vostra concessione;
- Aprire la propria casa ai loro amici per parlare insieme attorno a un tavolo e comunicare stabilità e fiducia;
- Cercare l’alleanza educativa con docenti a scuola, condividendo la responsabilità educativa senza demandarla, a vantaggio dei vostri figli, che altrimenti giocheranno sulla distanza tra le parti per evitare il dialogo.