TPI ha intervistato Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch. Valerio Nicolosi l’ha incontrata a Malta dove in questi giorni sta lavorando da terra per dare appoggio operativo e diplomatico alla nave Sea Watch 3. (Qui gli ultimi aggiornamenti, a questo link invece il reportage di Valerio Nicolosi per TPI a bordo della nave Sea Watch 3: “Né donne, né bambini, né uomini. Le persone restano a bordo e la terra possono guardarla da lontano”).
Giorgia, qual è la situazione a bordo?
La situazione a bordo è di precaria stabilità. Le persone a bordo stanno dimostrando di avere un livello di sopportazione più unico che raro, probabilmente perché hanno sopportato anche di peggio durante il loro viaggio.
Ovviamente si sentono in una situazione di prigionia, non paragonabile a quella vissuta in Libia o negli altri paesi africani di transito, ma pur sempre di prigionia.
Hanno ben chiaro che l’Europa non è quella che si aspettavano. Non vuole accoglierli, o perlomeno in questo momento non è in grado perché non c’è la volontà di farlo da parte degli stati membri.
Si, ho parlato con il medico di bordo e le condizioni si stanno aggravando. Non tanto da un punto di vista fisico, quanto da quello mentale.
Anche le condizioni del mare incidono molto e, nei prossimi giorni, ci saranno degli ulteriori peggioramenti. Questo potrebbe portare ad una debilitazione fisica, con conseguente peggioramento dell’aspetto psicologico.
Se ci fossimo stati noi, saremmo impazziti da tempo. Siamo preoccupati che possano avvenire atti di autolesionismo.
Assolutamente si. Sentiamo la responsabilità della vita di queste persone. Ci sono organismi internazionali, Paesi membri dell’Unione e gli organismi della stessa che stanno trattando su quello che sarà ma, in questo momento, gli unici che hanno una responsabilità sulla vita di queste persone sono il capitano della nave, l’equipaggio di Sea Watch e tutta la nostra organizzazione. Nessun altro.
Sentiamo fortissima questa responsabilità e mi dispiace che gli organismi citati in precedenza non si rendano conto che noi abbiamo in mano la vita di 32 persone. Potrebbe non sembrare, ma è una questione di vita e di morte.
Per fortuna i bambini hanno la fortuna di andare di più a compartimenti stagni, se si distraggono sono felici e il nostro equipaggio ce la sta mettendo tutta. La piccola di un anno è uno spettacolo, sta bene in braccio a tutti, gioca e si diverte.
Tra i pochi materassi presenti lei ha sempre un angoletto a disposizione. La bambina ivoriana è molto espansiva ed sempre allegra. Il bambino libico invece è molto introverso e, anche guardandolo per pochi minuti, si percepisce la sua preoccupazione. Si porta dietro anche le sofferenze della madre, scappata dal marito che voleva ucciderla e per quattro volte ha tentato di prendere un gommone per scappare, le prime tre senza successo.
Ho assistito ai saluti tra il vecchio equipaggio e le persone soccorse: scene strazianti di pianto e dispiacere. Hanno condiviso 14 giorni in queste condizioni e per forza di cose il legame è diventato fortissimo. Sembrava che si conoscessero da una vita. Ora c’è il nuovo equipaggio e si stanno dando da fare per rendere l’attesa meno angosciante ma un dato è certo: è stato brutto vedere scendere delle persone solo perché hanno dei passaporti europei mentre altre erano costrette a restare perché nate in paesi meno fortunati.
C’è da dire un’altra cosa: i nostri equipaggi sono pensati per fare soccorso in alto mare e non per stare vicino la costa ad aspettare qualcuno mentre probabilmente in mare altre persone stanno annegando. Noi siamo una Rescue Boat, facciamo soccorso e questo vorremmo continuare a fare. Io ho assistito al saluto “pubblico” tra l’equipaggio e i migranti a bordo. Ho visto anche dei sorrisi.
Le persone a bordo hanno tanta dignità e non vogliono mettere davanti ad una telecamera il proprio dolore. Avrebbero potuto prendersela con l’equipaggio, avrebbero potuto fare scene di pianto o atti strani, ma così non è andata. Questa dignità però li frega.
Sanno benissimo che se lo avessero fatto, avrebbero impietosito i governi e i cittadini. Però non è andata così e quindi i governi ne approfittano per lasciarli li. Trentadue noi, 17 su Sea Eye. Non fanno casino e li lasciano la.
Mi viene da fare un ragionamento che mi lascia l’amaro in bocca: Davvero dobbiamo piangere o impietosire qualcuno per far sbloccare la situazione? A bordo, per fortuna, c’è un livello di umanità più alto.
Noi vogliamo continuare ad operare in un preciso quadro legale. Il problema è che il quadro legale è stato già violato due settimane fa, quando gli Stati non ci hanno concesso il porto.
Se facessimo riferimento alle condizioni SAR, avremmo il diritto di accedere alle acque territoriali, potremmo forzare un’entrata in porto come situazione d’emergenza, potremmo andarcene in Olanda che è il nostro stato di bandiera ma potete immaginare quanto questo sia impraticabile per la distanza: dovremmo passare Gibilterra, navigare nell’Atlantico e arrivare fino all’Olanda. Praticamente una tortura.
Ci chiediamo come mai non sia possibile dirci: “Sbarcate e poi vediamo”, stiamo parlando di 49 persone, pochissime. Se i nostri governanti li incontrassero, capirebbero che possono essere una risorsa e non un problema.
Non so come possiamo uscirne, so per certo che non possiamo continuare così. In un modo o nell’altro dobbiamo trovare una soluzione entro pochi giorni.
A noi era evidente da un pezzo, anche solo da un punto di vista operativo perché non siamo mai riusciti a coordinarci con loro. La Libia, insieme allo Yemen, è l’unico paese al mondo in cui l’UNHCR ha disposto l’impossibilità di ritorno delle persone, perché non è sicuro. Credo però che anche loro siano in una situazione difficile, come pensano di coordinare degli assetti navali europei, che possono fare tranquillamente riferimento al proprio stato di bandiera?
Probabilmente si rendono conto che non possono coordinare né da un punto di vista operativo, ne da un punto di vista legislativo, questo tipo di operazioni. Probabilmente le aspettative europee sullo stato libico sono irrealistiche, sono un’utopia. Oggi, evidentemente, sono gli stessi libici a dirlo.
Aggiungo, per l’ennesima volta, solo l’ultima considerazione. La Libia non è un porto sicuro e questo non può essere messo in discussione. Addirittura lo spazio aereo è vietato, come può essere sicuro un porto?
Noi, pur volendo, non possiamo andare in Libia perché la nostra assicurazione, quella della Sea Watch 3, non ce lo consente proprio perché è un paese pericoloso.
Teatro, sulla pelle delle persone. Retorica, dopo quindici giorni parlare di donne e bambini senza tenere in considerazione che queste donne e questi bambini abbiamo un nucleo familiare e che questo non può essere diviso, lo trovo retorico e irresponsabile. Comprensibile, perché le dichiarazioni arrivano da una persona che non ha competenza rispetto a questo tipo di operazione.
Basterebbe che ognuno si occupasse del proprio settore. Le comunicazioni rispetto alle condizioni mediche e alle vulnerabilità vengono riportate di continuo alle autorità maltesi.
Se ci sono delle trattative tra Stati membri, è giusto che siano riservate e che si rendano pubbliche solo quando c’è un accordo e comunque dopo che essere state comunicate al capitano della nave.
Trovo che, purtroppo, ci sia un appetito mediatico che tende a prevalere sulle necessità pratiche in una situazione di crisi come questa.
È triste che questo tipo di trattative vengano prese come un’opportunità politica. Conoscendo il mio paese però, la cosa non mi sorprende.
Poco, pochissimo. Non è una questione di rifornimenti o benzina. Parliamo di quel confine che è stato già passato da tempo.