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    Via Scorticabove a Roma, la lettera aperta dei rifugiati sudanesi che dal 5 luglio vivono per strada mostra quanto è speciale la loro comunità

    "Dopo ben 13 anni, un’intera comunità è stata messa in mezzo a una strada. In questo modo si intende interrompere un importante processo di autonomia, auto-organizzazione e autogestione iniziato nel 2005 presso l’Hotel Africa, costringendo la comunità a disgregarsi"

    Di Anna Ditta
    Pubblicato il 22 Lug. 2018 alle 12:37 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 11:07
    Scorticavobe lettera rifugiati

    Dopo lo sgombero del 5 luglio scorso (che abbiamo raccontato qui), i rifugiati sudanesi di via di Scorticabove, nel quartiere Tiburtino di Roma, vivono per strada, sotto il sole e la pioggia, in un presidio permanente. TPI ha pubblicato la lettera scritta della comunità, che ripercorre la sua storia da quando, 13 anni fa, i primi rifugiati sudanesi che ne fanno parte sono arrivati nella Capitale.

    Nessun accordo per risolvere la situazione è stato raggiunto col comune di Roma dopo l’incontro della comunità con l’assessorato alle Politiche sociali guidato da Laura Baldassarre (qui i dettagli).

    Ecco la lettera:

    Il 5 luglio la nostra comunità sudanese di via Scorticabove, ha subito un improvviso e violento sfratto.

    Dall’oggi al domani, dopo ben tredici anni, un’intera comunità è stata messa in mezzo a una strada, in una condizione di estrema precarietà e pericoli da cui era, da anni, finalmente uscita.

    In questo modo si intende interrompere un importante processo di autonomia, auto-organizzazione e autogestione iniziato nel 2005 presso l’Hotel Africa, costringendo la comunità a disgregarsi.
    Negli anni infatti, la nostra comunità sudanese, da un momento iniziale in cui ha ricevuto assistenza, è passata quasi subito ad una fase di semi autonomia, raggiungendo, ormai da molti anni, un sistema esemplare di autonomia e autorganizzazione.

    La comunità ha gestito a sua volta e in molte occasioni, l’accoglienza di altre persone richiedenti asilo e protezione umanitaria, collaborando attivamente con le Istituzioni, facendosi carico di molte situazioni dove il Comune stesso non arrivava a rispondere, attivando un circuito di mutuo aiuto e di solidarietà nei confronti delle persone appena arrivate che necessitavano di sostegno, accoglienza e assistenza nel superamento dei traumi per il vissuto da cui provenivano, accompagnandoli nella ricerca del lavoro e nell’iter burocratico per il riconoscimento dello status di rifugiato, sopperendo ad un vuoto istituzionale.

    La comunità rappresenta una realtà fondamentale, da prendere come esempio e valorizzare: il processo di integrazione, il passaggio dall’accoglienza all’ autorganizzazione, sono elementi fondamentali di un percorso volto all’integrazione e all’autonomia, come ribadito dalle istituzioni.

    All’interno di questa contraddizione troviamo una Giunta che non considera nessuna soluzione che preservi la nostra comunità e l’autonomia acquisita, negando la nostra esistenza, i nostri valori, il percorso intrapreso e tutti i risultati ottenuti.

    Nessuna delle proposte alternative, valide e adeguate che mirano a preservare e a mantenere l’importante esempio che la nostra comunità rappresenta, viene minimamente considerata.

    Nonostante ci sia un ampio ventaglio di soluzioni, come ad esempio la requisizione temporanea del bene (Articolo 42 della Costituzione italiana), l’assegnazione di un bene confiscato alle mafie, l’assegnazione di strutture non utilizzate e vuote presenti in tutta la capitale, l’avvio di esperienze di co-housing, il Comune preferisce disgregare la nostra vita comunitaria consolidata in oltre 13 anni.

    Ogni proposta valida e percorribile che abbiamo individuato e portato al Tavolo con il Comune di Roma, frutto di un confronto e una ricerca seria ed approfondita, non è stata presa in considerazione.

    Le proposte che abbiamo fatto, confrontandoci con le rete di solidarietà che si è attivata con noi sin dal 5 luglio, si pone in un’ottica di collaborazione con le Istituzioni, con la consapevolezza dell’importanza del mantenimento della nostra comunità- famiglia che invece le istituzioni negano e a cui non danno evidentemente nessun valore e nessuna importanza.

    Le conseguenze dello sfratto, senza alcun preavviso e senza che sia stata trovata prima una soluzione alternativa, nonostante ci fosse stato tempo, ci ha messo in mezzo a una strada dove tutt’ora stiamo ancora vivendo.

    L’unica alternativa che il Comune continua a proporci è il posto letto presso varie strutture nel circuito emergenziale, dal quale siamo usciti da oltre dieci anni: individuare e scegliere unicamente questa possibilità, negando le altre fattibili che mantengono viva e attiva la nostra comunità, rappresenta il mancato riconoscimento dell’enorme e significativo percorso fatto finora, e ci ributterebbe nell’emergenza. E’ questo un enorme passo indietro per tutti noi e per l’intera società civile.

    Le conseguenze della mancanza di un’ alternativa valida ci vede, ancora oggi, a vivere in strada ed ha creato altre situazioni di emergenza abitativa laddove non c’erano, con il rischio di perdere il nostro posto di lavoro, oltre ad averci causato un danno economico, danni ai nostri effetti personali e, non ultimo, un considerevole stress e il rischio di incorrere in pericoli che ci eravamo illusi fossero scongiurati.

    La solidarietà e la partecipazione attiva delle persone che si sono avvicinate al Presidio, ci fa ancora sperare per il futuro dell’Umanità. In tanti sono rimasti al nostro fianco e continueranno a lottare con noi per i nostri diritti: la rete di solidarietà che sta affrontando questo momento difficile insieme a noi si sente, ora, parte della stessa comunità stessa. Siamo felici di questo e crediamo che sia un altro grande risultato che sottolinea la sensibilità, la forte capacità di interazione ed inclusione di cui la nostra comunità sudanese è portatrice e che è in grado di trasmettere, uscendone rafforzata in termini anche di relazione con chi crede nei valori profondi dell’Umanità.

    Una ricchezza e un bagaglio di rapporti umani che non dovrebbe disperdersi: l’incontro e la condivisione che abbiamo con le altre realtà è un valore per tutti i cittadini e le cittadine con le quali ci sosteniamo reciprocamente, tenendo alto il senso della condivisione, dell’inclusione e della solidarietà.

    Considerato:
    1. Che la comunità ha raggiunto un modello esemplare di mutualismo e auto-organizzazione nella gestione della vita quotidiana, attivando anche consulenze e servizi;
    2. Che questa comunità ha offerto, negli anni, servizi sociali basilari ai migranti sudanesi, anche riducendo il carico per i servizi sociali comunali e nazionali;
    3. Che le migrazioni sono un fenomeno strutturale, a cui non si può dare risposta emergenziale;
    4. Che questa esperienza è un modello virtuoso da replicare e non distruggere;
    5. Che tutte le soluzioni proposte riportano persone che stavano superando gravi sofferenze e traumi, attraverso un percorso di integrazione sociale, ad una situazione emergenziale e precaria che stavano invece superando;

    La comunità vuole:
    1. Mantenersi tale e rimanere unita;
    2. Continuare a svolgere importanti funzioni sociali per sé e per la cittadinanza:
    3. Ottenere uno stabile da autogestire, come è stato per 13 anni.

    La comunità auspica sensibilità morale e politica nel garantire i diritti di rifugiati che hanno fatto un lungo percorso per sfuggire alla dittatura e alle torture, che hanno avviato un percorso di integrazione unico e virtuoso.

    Chiediamo che la nostra comunità e la nostra esperienza non si disperdano.

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