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Salvini, l’immigrato e la scorta: ecco perché questa foto racconta alla perfezione il nostro tempo

La foto pubblicata sul Corriere della Sera

L’attenzione del ministro per le merci del venditore ambulante, anziché per colui che, strattonato, le tiene in mano, esprime al meglio l’essenza contraddittoria delle politiche liberiste dominanti: circolazione illimitata delle merci e restrizioni fortissime degli spostamenti di esseri umani

Di Danilo Gatto
Pubblicato il 10 Gen. 2019 alle 19:56

Quando Foucault apre il suo ‘Le parole e le cose’ con l’analisi dell’opera ‘Las Meninas‘ di Velazquez, non lo fa per qualche improvvisata velleità artistica ma per mostrare come un quadro possa restituire, attraverso la posizione dei personaggi, i loro sguardi, le loro azioni e le loro relazioni spaziali, l’ordine del discorso di una determinata epoca.

Il potere di un’immagine di rappresentare, tradurre, svelare e produrre un determinato stato di cose è pressoché illimitato, in particolare quando ciò che viene “fermato” su una tela, un rullino o una memoria digitale arriva a mostrarsi da sé come il “quadro del tempo”.

È il caso della foto pubblicata sul Corriere della Sera e che negli ultimi giorni ha rimbalzato sui social network da un account all’atro ovvero quella che ritrae Salvini e un venditore ambulante prontamente allontanato dalla scorta del ministro. Non riveste particolare importanza, nel nostro caso, la dinamica che ha portato a quello scatto (Salvini era in Abruzzo in vista delle elezioni regionali ed era in fila per scattare qualche selfie con i sostenitori, quando si è avvicinato un venditore ambulante nel tentativo di vendergli qualcosa) quanto ciò che lo scatto stesso, pur senza proferire suono alcuno, ci suggerisce a chiare lettere.

Per cominciare, possiamo partire dalle figure in primo piano che sono, appunto, il venditore ambulante, Salvini e le sue guardie del corpo. Ciò che la foto ci restituisce immediatamente è la differenza tra gli sguardi dei protagonisti: il venditore ambulante è quasi a terra, braccato dalle guardie del corpo, e rivolge uno sguardo supplichevole al ministro dell’Interno che, osservando con attenzione, sembra non restituire lo sguardo ma fissare il cestino con la merce in mano all’ambulante; le guardie del corpo, perfettamente immedesimate nella loro funzione, hanno gli occhi rivolti verso punti quasi estranei alla situazione (uno pare abbia persino gli occhi chiusi).

Quali relazioni sono implicite nella scena che il fotografo del Corriere ha immortalato? Lo sguardo implorante dell’ambulante dice già molto senza che si prenda in considerazione il cestino pieno di merce che tiene in mano; è proprio questo, però, a restituire la dimensione storica riassunta nella foto cioè la realtà di un imperialismo portato avanti per secoli dalle potenze occidentali al fine di estrarre risorse e forza lavoro a basso costo in vista della produzione e della valorizzazione dei capitali, fenomeno alla base della destabilizzazione di contesti socio-politici da cui, necessariamente, i popoli fuggono.

Nelle mani strette attorno al cestino pieno di merce non c’è soltanto la necessità di preservare, anche in una situazione concitata come quella, l’unica fonte di reddito al momento possibile; soprattutto, è sottintesa una schiavitù che, passando prima per la produzione di quegli stessi oggetti in luoghi del mondo in cui la forza lavoro è retribuita ben al di sotto di qualsiasi cifra moralmente accettabile, vede nell’ultimo momento della circolazione, ossia nell’attimo in cui la merce prodotta esce dal mercato per essere consumata, un cerchio che si chiude esattamente allo stesso modo di come si era aperto: attraverso lo sfruttamento di chi galleggia sulle sabbie mobili della sopravvivenza materiale e sociale. Per l’ambulante, ancor più della stretta delle guardie del corpo di Salvini, quel cestino e le merci che esso contiene sono delle manette.

A quelle merci nel cestino, però, pare interessato lo stesso Salvini. Le sue politiche anti-accoglienza sono rivolte contro coloro che, per salari da fame, estraggono materie prime o producono quelle merci, non certo contro queste ultime, che rappresentano sempre una buona occasione per favorire qualche grosso capitale.

Non è un caso che, alla chiusura dei porti, fa spesso eco quello slogan che manifesta l’intenzione di “aiutarli a casa loro” con investimenti che nulla hanno di diverso da ciò che in quelle terre si è sempre fatto ma che, oggi, può essere mascherato da “imprenditoria solidale”. L’attenzione del ministro per quegli oggetti piuttosto che per colui che, strattonato, li tiene in mano, esprime al meglio l’essenza contraddittoria delle politiche liberiste dominanti: circolazione illimitata delle merci e restrizioni fortissime degli spostamenti di esseri umani, a meno che questi non si muovano da turisti e quindi da potenziali consumatori di servizi (benzina, treni, aerei, alberghi) e merci.

Eppure, la contraddizione per cui ciò che è morto e immobile (la merce) ha comunque maggiori possibilità di muoversi e circolare rispetto a ciò che è vivo (gli esseri umani) non potrebbe realizzarsi senza qualcuno impegnato nella salvaguardia di questo “sacrosanto diritto del Capitale”.

Le guardie del corpo di Salvini esprimono al meglio tutto questo. Il loro sguardo non va né verso l’ambulante, né verso ciò che egli ha in mano, né verso il ministro che devono “proteggere” ma verso il quale, comunque, sembrano chinare il capo in segno di riverenza. L’indifferenza verso il destinatario della loro azione, potremmo dire “la loro cieca obbedienza”, fa di essi un elemento imprescindibile affinché un determinato ordine sociale ed economico resista nel tempo, un momento di mediazione fondamentale tra chi ha il potere e chi no.

E al di là degli sguardi, le posizioni dei corpi protagonisti della foto sembrano riprodurre proprio la gerarchia sociale appena descritta: più in alto di tutti, Salvini, le cui mani sono le uniche libere e pronte a dare ordini; all’opposto, quasi a terra, l’ambulante braccato che regge le merci che vorrebbe vendere; a metà tra i due, le guardie del corpo che stringono le braccia del venditore e che vanno a completare la rappresentazione di questa triste e avvilente scala di potere.

Ma non sono questi gli unici protagonisti della foto. Intorno a essi vi è una folla di sostenitori del ministro dell’interno, in attesa di un selfie con il loro beniamino. La quasi totalità degli sguardi è rivolta verso di lui, non verso ciò che sta avvenendo, come se il vero avvenimento, il vero evento sia Salvini stesso, l’incarnazione di una svolta politica attesa da tempo, il ritorno dell’ordine con la O maiuscola.

Salvini, quindi, non è altro che un feticcio, la “venuta”, in forma umana, di reazioni che emergono soltanto laddove non esistono capacità, possibilità e voglia di spiegare oggettivamente lo status quo, i suoi drammi e le sue contraddizioni. Salvini non è altro che un giubbotto della polizia che ha il potere di guardare dall’alto in basso mentre, a sua volta, è guardato dall’alto in basso.

Perché sì, i protagonisti dello scatto in questione non sono soltanto quelli ritratti nella foto. Ce n’è un altro, invisibile, come nell’opera ‘Las Meninas’ di Velazquez, riconoscibile soltanto di riflesso: l’osservatore. Esso può assumere diverse forme a seconda del tipo di narrazione che si è intenti a scorgere.

Può essere il padrone, il ricco, il Capitale spersonalizzato, colui o coloro verso i quali le politiche di Salvini e dei suoi alleati di governo, allo stesso modo dei governi precedenti, sono rivolte con tanta benevolenza; colui o coloro che stanno ancor più in alto di Salvini (la posizione da cui è scattata la foto è effettivamente più in alto dei soggetti ritratti) e che vanno a integrare quella scala di potere di cui il ministro dell’interno, ora, non è che il secondo gradino; colui o coloro, infine, verso i quali Salvini deve mostrarsi servizievole, riverente, affidabile, ligio nel suo dovere di capo della polizia.

Ma l’osservatore può anche essere ciò che, magari impropriamente, potremmo chiamare il Tribunale della Storia, di cui questa foto è oramai agli atti, in attesa di una sentenza. La natura dell’osservatore, le sue forze e le sue voglie, le sue possibilità e il suo coraggio, determinano la narrazione di un fatto o di un’epoca; e se, da un certo punto di vista, l’evento di Salvini e del venditore ambulante può esser letto come un ritorno all’Ordine, da un altro può rivelarsi come il suo opposto, come uno degli ultimi colpi sparati in una guerra contro l’Altro che è tale solo in quanto non bianco, non ricco, non maschio e non eterosessuale. Una guerra che, ahinoi, attende da secoli la sua Norimberga.

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