I cantanti? Lascino perdere i migranti e la politica, pensino a cantare. Gli attori? Che si preoccupino di fare bei film senza rilasciare interviste sul presente. Gattuso? Corra, faccia correre e stia zitto. Saviano? Che scriva libri, che si riduca solo a quello. Baglioni? Che si concentri sulle canzonette. Addirittura: il Papa? Che pensi a papare e nulla più.
Il fantastico mondo di Salvini è un Paese in cui sta a lui scrivere la sceneggiatura della quotidianità di tutti gli altri: il macellaio taglia carne negli orari di bottega e poi si mette in pausa fino al rialzare la serranda domattina, i maestri appena terminata la lezione si rimettono in postazione di ricarica come i robot aspirapolvere, gli artisti non esistono se non per la durata di un film e o di una canzone, i giornalisti dovrebbero scrivere editoriali solo sul cattivo tempo o sul freddo che quest’anno non arriva e agli sportivi è negato avere pareri all’infuori degli schemi da adottare nella prossima partita.
È un Paese favoloso, quello di Salvini, senza nemmeno bisogno di Amelie: nella sua piatta fantasia di bambino che non è mai andato oltre al cortile di casa sua i ruoli definiscono le persone, le professioni sono semplicemente dei confini e lui, solo lui, lui solo, ha la delega su tutto il resto. Lui, l’unto, può svariare dalla politica internazionale al diritto marittimo passando per l’economia e per la morale mentre tutti gli altri (sia ben inteso, tutti, anche i suoi stessi elettori) devono limitarsi di stare entro i confini del proprio codice di partita iva o del contratto nazionale in cui sono inquadrati.
Ci sono le mamme, i papà, i preti, le sarte, i meccanici, i commercialisti, i marinai, gli astronauti, i goleador, i tifosi: niente persone, nessun pensiero complesso, nessuna eterogeneità.
Il sovranismo di Salvini non è solo una bufala politica (che mica per niente raggruppa il peggio dello scenario internazionale) ma è una vera e propria forma mentis: l’ordine a cui aspira è una semplificazione del mondo che impedisca a ognuno di avere un ruolo politico e civile con cui è evidentemente incapace di fare i conti al di là delle battutine, dei bacini e di qualche tweet usato come concime per l’appiattimento generale.
È facile così: i migranti sono tutti criminali, i poveri tutti falliti, i dissidenti tutti nemici del popolo, i leghisti tutti buoni, i grillini tutti ingenui (ma indispensabili per avere i numeri), i sinistri tutti coglioni (l’avete già sentita, vero?), e così via fino a una realtà in cui solo il non essere d’accordo con lui è già un marchio indelebile da indossare con vergogna. Il triangolo verde: l’oppositore di Salvini.
Sarebbe da chiedere a tutti coloro che hanno votato questo governo perché “per troppo tempo abbiamo avuto una politica disinteressata ai nostri bisogni” come si sentano oggi, relegati al ruolo di sudditi con la semplice differenza rispetto al passato che ciò che avveniva per snobismo o per privati interessi ora accade per proteggerci.
Il ‘lasciateci lavorare’ non è come potrebbe sembrare una richiesta di tempo, no: significa fatevi i fatti vostri, diventate come noi preoccupati solo delle vostre cose minime e più vicine, un invito alla ristrettezza di visione che è la migliore garanzia di libertà (e impunità) per chi occupa i posti chiave della classe dirigente. Siamo passati dal ‘voi non capite, non potete capire’ al ‘a voi non deve interessare’: cambia la forma ma la schifezza è la stessa.
“Questo nostro mondo è diviso in vincitori e vinti, dove i primi sono tre e i secondi tre miliardi. Come si può essere ottimisti?”, scriveva De André, che in questi giorni tutti si rincorrono a citare.
Come si può essere ottimisti in un Paese in cui le caste sono definite oltre che per censo, per provenienza e per colore della pelle addirittura anche per ruoli? Come si può millantare una democrazia diretta se il voto diventa l’adesione totale e totalizzante a un’idea che non può essere messa in discussione e se lo Stato diventa semplicemente un’ulteriore divisa da indossare senza nessuna sfumatura e senza nessuna organizzazione che non sia la servile messa a disposizione agli ordini del capo.
Eppure il ministro dell’inferno Salvini è il primo a contraddire il suo dogma: dovrebbe fare il ministro secondo le sue regole d’ingaggio e invece è l’interprete della propaganda del suo partito; dovrebbe essere il ministro di tutti i cittadini e invece si diletta nello sfregio degli avversari; dovrebbe occuparsi di sicurezza e invece per un pugno di voti insiste nel rimestare le paure; dovrebbe rappresentare le istituzioni e invece non disdegna qualche perculamento pur di guadagnare qualche briciolo di autorevolezza.
Dovrebbe occuparsi degli ultimi e invece li disprezza e li nasconde sotto al tappeto: li odia perché non sono banalizzabili, non sono niente, non hanno niente e non ci sono ganci per catalogarli. Li detesta perché fatti di niente riflettono l’immagine di chi li giudica. E lui riflette niente. Niente.
Ma il gioco non durerà per sempre, no. La complessità della politica (così come della vita) è cavalcabile solo per periodi brevi, pronta a riemergere prepotente. E ci vuole allenamento alla complessità: serve umiltà, occorre avere l’inclinazione all’imparare e al mettersi in discussione. Siamo pieni di fenomeni bruciati velocemente di fronte a cambiamenti che non sono stati in grado di comprendere. Arriva sempre qualcuno migliore nel solleticare gli istinti. Buona fortuna, ministro Salvini.
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